Il setaccio tramandato di madre in figlia, per fare "la ragnat" secondo l'antica tradizione

Le ricette di una volta

Maria Napolitano
13/10/2015
Gusto
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I nostri ricordi, spesso sono un patrimonio incredibile di esperienze e tesori umani di cui non sempre riusciamo a percepirne il vero valore. Ma poi arrivano quasi per magia delle persone, che in qualche modo ti spingono, quasi ti costringono, a far riemergere questi tesori.

Uno di questi ricordi è legato a mia mamma, quando faceva la marmellata d’uva, la “ragnat” come la si chiamava una volta. Solitamente, il mio aiuto in questo lavoro casalingo, era molto marginale, un po’ perché mi sembrava complicato, un po’ perché pensavo “c’è mamma che lo fa”.

Ho sempre amato questa marmellata, perché ha un unico ingrediente che è l’uva, un sapore molto particolare, che non ti permette di confonderla con nessun'altra marmellata e caratterizza uno dei miei dolci preferiti “li cill’archien”( celli ripieni o tarallucci di vino).

Quest’anno per la prima volta, mi sono decisa a fare questa marmellata, per farlo ho chiesto ai miei fratelli una cassetta d’uva montepulciano e il setaccio, tramandato da madre in figlia da almeno 150 anni.

Ciò che sembrava un ricordo sbiadito e lontano, è tornato nitido e mi è servito per ottenere un risultato al di sopra delle mie aspettative. 

Mia mamma solitamente, faceva questa marmellata mentre tutta la famiglia era impegnata a fare il vino. Qualche volta, si agevolava il lavoro, scegliendo una bella cassetta di uva e anziché separare gli acini dai graspi a mano utilizzava la pigiatrice. Utilizzava le cosiddette “callarell” di rame e se in casa erano in corso anche i lavori per il vino, la prima cottura dei chicchi d’uva la faceva sul fuoco a legna acceso per il vino cotto.

Ho seguito questa procedura:

Ho preso i grappoli, ho tolto gli acini rinsecchiti e marci, con molta delicatezza ho separato i singoli acini dal graspo e li ho posti  in un grosso tegame d’acciaio. Questa è stata la fase più noiosa, mi sembrava di non finire mai e mi è venuto naturale pensare: ecco perché questa marmellata non la fa quasi più nessuno!

In seguito ho messo la pentola sul fuoco, prima basso e poi vivo, finchè non si è asciugata tutta l’acqua dell’uva. L’ho fatto intiepidire e ho versato dei mestoli del composto sul setaccio e li ho passati. La parte interna del setaccio è quasi effetto grattugia, attenuato quindi quando finisce la polpa e restano “l scricchiun” (i semini) si sente il fastidio del metallo che ti gratta.

Non conviene assolutamente lasciarla raffreddare completamente. Gli ultimi mestoli oramai freddi si passano molto più difficilmente. Siccome è un po’ fastidioso e abbastanza lungo questo passaggio si cercano soluzioni alternative al setaccio (anche mia mamma ne aveva tentate tante, ma poi doveva sempre utilizzare il setaccio perchè più efficiente).

Ho provato il passaverdure a mano ma non va bene perché si schiacciano anche i semini dell’uva. Una volta terminata questa lunga procedura del “setacciare” ne deriva una poltiglia piuttosto liquida che ho poi rimesso sul fuoco.

Questa poltiglia si attacca molto facilmente per via dell’alto contenuto di zucchero dell’uva, che ora tra l’altro è diventato più concentrato.  Poi ho usato la tecnica di mia madre di cucinarla in più riprese delegando all’aria e al calore della pentola il grosso della preparazione di questa marmellata. Quando si vede che una volta fredda non si forma quella tipica acquetta, la si riscalda e la si mette ancora bollente nei barattoli di modo che si crei una pellicola che fa da intercapedine.

Il risultato è una marmellata molto compatta che si conserva per diverso tempo (mamma a volte la conservava anche per due tre anni quando capitava che un anno ne faceva di più) senza necessità di aggiungere alcun conservante.

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