“La giostra della memoria”, aria di antico, di sogno, di interno profondo

Teresa Antonietta Teti
20/06/2017
Territorio
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Entrare nel museo “La giostra della memoria” è essere museo cioè  “luogo sacro alle muse”: c’è un’aria di antico, di sogno, di interno profondo. È come un percorso a ritroso mentre si va avanti ma col bisogno di fermarsi a una sosta, varcare le dimensioni dell’essere e dell’esistere, di ciò che è stato e continua a vivere in ogni più piccola cosa, “dolce come rosa”.

Prima di salire le scale l’occhio si sofferma nella stanza della medicina popolare che del popolo ha la primigenia raffinatezza, una sorta di quintessenza di alberi radici  cortecce e corolle, zolle di terreno e sali di carbonio, un ciclo vitale che si perpetua in una vegetazione rimasta sempre accesa nei rametti di rosmarino e di lavanda,  di miosotis e ginestre, nei sacchetti di mille semi profumati, nelle ampolle sui ripiani che  serbano petali di primavere mai avvizzite, da mostrare con timida fierezza a chi andando vorrebbe restare in essa.

Un corridoio stretto, forse c’è un arco, introduce ad altri mondi, si può decidere dove proseguire, è un po’ come la strada della mente con le sue possibilità di scelte, i sensi attenti ma immersi in un’atmosfera di silenzio e di calma. Fuori c’è il rumore delle cose che cambiano, dentro c’è il cambiamento a ogni momento, niente è uguale se torni nella stessa stanza, mentre tutto sembra fermo. E non è inganno.

Si potrebbe rimanere ore soltanto in una di esse, e sono venti, a perdersi in oggetti che sono soggetti di una vitalità  ognuna con i suoi propri battiti. Stanze di trame e orditi, un telaio che fila i pensieri sottili davanti agli occhi, per vestiti da spose con corredi di cotoni di Fiandre e lini di Irlanda.   Stanze di bambole e ognuna è l’immagine di un luogo, di un’epoca e di uno stile, di una fase della nostra infanzia e di quella altrui, oppure lo specchio di una maturità raggiunta, come di un frutto maturo e polposo.

Stanze di ceramiche a metà tra  quadri e sculture, colori soffusi di una luce che riposa. Una finestrella illuminata di una cucina apparecchiata in una soffitta mai dimenticata. La stanza del contadino che è in ognuno di noi, anche i nobili ce l’hanno, perché il sangue scorre in tutti come fiume e si ferma quando arriva al mare per gettarvisi senza timore. La stanza della maestra, dove si respira la tenerezza di una madre o di un antico aio o di una maestrina di una frazione di montagna con una stufetta a carboni per scaldare gli  inverni. 

La stanza di don Cirillo che è quasi onomatopea: campane campanellini e carillon, un ostensorio e i paramenti di un sacro solenne  roboante, tra statuette di San Vitale in esposizione lineare come in processione, non noi, le statue stesse: una, tante, uguali nella ripetizione di un rito di ingresso a un’altra dimensione. Le scalette tortuose, anch’esse museo, alle pareti delle quali nessuna iscrizione è per caso. Persino la stanza della pubblicità, quando la pubblicità era un carosello.

Ed altre stanze che è meglio non dire, per non sciupare la sorpresa dei visitatori, i quali si aspettano un museo  con  etichette e  catalogazioni e invece si ritrovano nell’assoluta libertà del mondo  platonico delle idee  dove, partendo dal sensibile si va  oltre il sé e oltre le tracce di tante storie isolate, verso un principio comune che richiama al senso universale di storia e di memoria. Il lavoro trentennale di ricerca di un’appassionata di…bellezza, nell’unica zona di San Salvo che riserva alla mente il dono del ricordo, una costruzione antica in pietra di tre piani che non mostra insegna alcuna, quasi a voler riservare il privilegio di scoperta o riscoperta a quanti ne sentono il bisogno o solo il desiderio.

 

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