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I racconti del Conte: U2 - The Joshua Tree Tour Modena, 29 Maggio 1987

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Quasi primavera, inizio marzo, 1987, trent'annni fa. Quattro anni dopo “The Unforgettable Fire”, che aveva portato Dublino al centro del nuovo rock globale, viene pubblicato “The Joshua Tree”. La copertina quasi tutta nera con la foto del gruppo con Bono neanche ti guardava, per vera o finta timidezza: il DISCO!  La puntina del giradischi, una specie di aratro, iniziò a consumarne i solchi e ben presto pensai di registrarlo su cassetta per non limare subito tutto il vinile. La prima volta che ascoltai la terza canzone del Lato A, “With or without you” pensai seriamente che si fossero rotte le casse. I dischi avevano i lati, ti concedevano una specie di pausa, una specie di scelta. Dovevi alzarti o quantomeno avvicinarti. Dovevi decidere se ascoltare ancora (metodi, lessico ed esigenze del secolo scorso). Ora, spesso, ti limiti a sentire. Quel DISCO, quel tempo non era tutto ciò. Una canzone dopo l'altra, un susseguirsi di colpi al cuore. I primi tre titoli, se letti in fila, sembrano una specie di dichiarazione di energica impotenza: Where the Streets Have No Name, I Still Haven't Found What I'm Looking For, With or Without You. 
Con l'uscita del disco viene annunciato un tour mondiale. Penso subito “dove vanno andrò, spero non vadano lontanissimo”. Tre date in Italia a Maggio, una a Roma, due a Modena. Radio Studio 99 (che dio l'abbia in gloria) organizzava la trasferta. Benissimo, sono già seduto su quel bus!
Partiamo la mattina del 29 Maggio, direzione Modena. Non conosco nessuno dei miei compagni di viaggio ma poco importa: sembra di conoscerli tutti, stessa passione. Avevo addosso una maglia verde, bellissima.
Arriviamo ed entriamo presto. Mi posiziono il più vicino possibile. Palco e retropalco neri. Aspetto. Prima che il giorno inizi a finire, iniziano i concerti. I gruppi spalla senza infamia ne lode ad eccezione della sempre dolcissima Chrissie Hynde coi i suoi Pretenders. Poi, il drappo nero che copre il retropalco, lascia il posto all'albero di Giosuè. Le luci del tramonto lo infiammano. L'attacco di arpeggio gravitazionale di “Where the Streets Have No Name” viene quasi annullato dall'urlo dello stadio comunale. Edge, che botta! La festa inizia. Suonano senza risparmiarsi, una scaletta da urlo. Bono cita Jim e Van Morrison, Lennon, i Beatles. Sono annullato, mi attraversano note e parole. Dopo la scarica di adrenalina di “Pride” fanno una pausa. Accanto a me ci sono due ragazzi. Bellissimi. Sono abbracciati dall'inizio più per necessità che per affetto, quasi non si reggono in piedi. Lei, ora, gli dice qualcosa all'orecchio, lo bacia, si allontana. Lui inizia a seguirla con lo sguardo ma lei si perde inesorabilmente nel mare di gente. La band torna sul palco con “Party girl”. Sul basso di “With or without you” (la cui potenza è da misurare con la scala Mercalli) la ragazza “accanto a me” ritorna, si baciano, e tornano a sostenersi. Ma questa volta sembra un abbraccio vero. Intanto Bono chiede se c'è qualcuno che voglia suonare la sua chitarra, sale un ragazzo, suonano inseme “People get ready” di Dylan. Ultima canzone, “40”, i componenti della band lasciano il palco uno alla volta. Resta solo Larry Mullen Jr alla batteria.
Il concerto è finito, riprendiamo il bus, “A sort of homecoming” con l'emozione e la certezza di aver assistito a qualcosa di grande.
Qualche notte fa, trent'anni dopo, ho sognato quei due ragazzi con facce diverse. Oggi ripenso alla suggestione che mi diedero quei primi tre titoli in fila di “The joshua tree”. Tre titoli che sembrano un verso di Bukowski:
            
            “percorrerò strade che non hanno ancora un nome
             perché non ho ancora trovato quello che cerco
             e lo farò con o senza te”

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