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La parola di Dio  ci trasporta in alto, a puntare i nostri occhi oltre la scena di questo mondo

Commento al vangelo

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Così inizia il brano dell’Apocalisse di san Giovanni: “Si aprì il santuario di Dio nei cieli e apparve l’arca dell’alleanza” (Apocalisse 11, 19). Ed ecco “un segno grandioso” apparire “nel cielo”: una donna tutta luce e splendore. Ma ecco – ancora nel cielo – apparire un altro segno: “un enorme drago rosso”, la cui coda “trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra”. E’ il segno delle tenebre e del male, il segno della morte. Si profila così uno scontro terribile: il drago è lì a minacciare la donna che stava per partorire, perché vuole “divorare il bambino appena nato”. Ma ecco che il figlio viene subito “rapito verso Dio e verso il suo trono” e la donna “fugge nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio”. E’ la vittoria: della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, del bene sul male. E lassù, in alto, in cielo “una gran voce” a proclamare: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo”(v. 10).

Di questa potenza del “Cristo di Dio” ci parla la seconda lettura, per bocca dell’apostolo Paolo (1 Corinzi 15, 20-26). Riascoltiamo la sua voce, che annuncia: “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (v.20). Ma non solo lui è il risorto, continua Paolo con gioia inattesa e straripante: tutti noi siamo chiamati a condividerne la vittoria e la gloria. Scrive infatti: “Poiché a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (v.21-22). 

C’è però una condizione per condividere il destino di Cristo risorto: essere “di Cristo”, appartenere a lui nella fede e nella carità. E noi sappiamo che nessuna creatura appartiene a Cristo così profondamente come Maria, la vergine madre, la piena di grazia, l’immacolata, l’assunta nella gloria di Dio non solo nell’anima ma anche nel corpo.
Così, solo con uno sguardo in alto, con gli occhi della fede rivolti al cielo, ci è dato di immergerci in una bellezza spirituale che non ha quaggiù l’eguale: ci è dato di contemplare la vittoria di Cristo risorto e di quanti sono con lui, a cominciare - in modo sinora unico - con Maria assunta con la realtà umana del suo corpo verginale e materno. 

E ancora in alto, al cielo, al cuore onnipotente e amoroso di Dio si rivolge Maria, di cui il vangelo d’oggi ci ricorda la visita alla parente Elisabetta (Luca 1,39-56). Quello di Maria è uno sguardo orante, tutto intessuto di gioia, di gratitudine, di riconoscimento della grandezza di Dio, d’una grandezza che gli fa volgere gli occhi misericordiosi alla piccolezza della vergine madre. È il cantico così bello e profondo del Magnificat. Riascoltiamone l’inizio, facendo il più possibile nostri i sentimenti della Madonna: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva… Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome…” (vv. 46-49). Sentiamola così, carissimi, la festa dell’Assunta: come la solennità mariana che in una maniera più intensa ci spinge a guardare in alto, a levare il nostro sguardo al cielo. Guardare in alto! È possibile, è bello, è doveroso. Ma è necessario il coraggio, tanto coraggio!
Sì, perché il rischio che tutti corriamo è di guardare in basso, solo in basso, imprigionati e rovinati come siamo dal nostro “io”: un “io” spesso pesantemente segnato dall’individualismo e dall’egoismo, un “io” che ripiegandosi su se stesso tende ad assolutizzarsi, a configurarsi come un “idolo” da adorare e per il quale si è disposti a sacrificare tutto. 

Ma un “io” così inquina il rapporto essenziale che ciascuno di noi ha con gli altri: siamo fatti per l’incontro e la relazione. Quando però sull’incontro e sulla relazione prevale l’affermazione del proprio “io”, la sensibilità verso l’altro diviene indifferenza, l’impegno verso l’altro non è più percepito e vissuto come responsabilità, il dono di sé all’altro qualcosa di non dovuto. Ecco perché abbiamo bisogno di guardare in alto! Guardare in alto, a Dio, è tutt’altro che un’evasione da noi stessi e una fuga dalla nostra storia.

Al contrario è il modo più vero per poterla vedere – questa nostra storia, presso di noi e gli altri, in un orizzonte vasto come il mondo –, vederla nella sua verità e per poterla assumere – cioè strutturare in modo veramente e pienamente umano - con tutto il peso della nostra responsabilità. Paradossalmente, solo lo sguardo in alto rende possibile lo sguardo verso gli altri e verso il basso, verso la terra e i suoi problemi.

L’esempio ci viene ancora da Maria, dal suo Magnificat: i suoi occhi e il suo cuore si aprono sulla storia del popolo eletto (di tutti i popoli del mondo, dell’umanità intera), e la vedono nello splendore della verità e della giustizia di Dio: una storia intessuta di bene e di male, di grazia e di miseria morale, di generosità e di egoismi: una storia di cui primo e ultimo “protagonista” è Dio e il suo amore giusto e misericordioso.Sia dato anche a noi di vedere che Dio “ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili”, che il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi”. Soprattutto sia dato di vedere e di sperimentare “di generazione in generazione la sua misericordia”.

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