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“Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo!”

Commento al vangelo

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L’episodio della trasfigurazione si colloca dopo il primo annuncio della passione. Il programma di viaggio in direzione di Gerusalemme, in direzione della croce, ha lasciato senza fiato i discepoli. Costoro sono arrivati a scoprire l’identità di Gesù, a riconoscere in lui il Messia, ma trovano estrema difficoltà  a seguire la sua strada. Rimangono come sgomenti di fronte alla prospettiva del Calvario. “Inviato dal Padre”, va bene. Ma dovrebbe essere, secondo la loro mentalità, un viaggio trionfale. Invece la prospettiva svelata dalle parole di Gesù è tutt’altro che esaltante. In questo contesto di paura, incertezza, dubbio, Gesù inserisce una “pausa luminosa”.

Per aiutarli a superare lo scandalo della croce, fa gustare a tre apostoli un anticipo della risurrezione. Per incoraggiarli a sopportare le tenebre incombenti, fa balenare dinanzi ai loro occhi un guizzo accecante della luce futura. In una parola, fa scorgere ai suoi amici “l’al di là” della prova imminente.

Vediamo di cogliere, nella ricchezza di questo episodio, alcuni elementi significativi per la nostra avventura cristiana.

Il mistero di Cristo è un mistero che ha, per così dire, due facce, una luminosa e l’altra oscura: croce e gloria, abbassamento ed esaltazione, debolezza e potenza, fallimento e trionfo. Tutta la pedagogia di Gesù nei confronti dei discepoli è consistita nel far loro accettare il passaggio obbligato: alla gloria attraverso la croce, alla luce della Pasqua attraverso le tenebre del Venerdì Santo, all’esaltazione attraverso la sconfitta e l’umiliazione.

Anche per noi, bisogna ammetterlo chiaramente, è difficile accettare questo passaggio. Siamo d’accordo sul punto finale, ma abbiamo parecchio da ridire sulla strada scelta dal Cristo per arrivarci. Difficile da digerire la sapienza di Dio che si manifesta nella stoltezza della croce. Arduo scegliere la debolezza come luogo dove si manifesta la potenza di Dio. Eppure dobbiamo convincerci che non basta rispondere con esattezza -come ha fatto Pietro- alla domanda sull’identità di Gesù, occorre pure accettare il suo itinerario, farlo nostro. Il mistero del Cristo va accolto nella sua totalità sconcertante. Non è lecito scegliere, privilegiare la faccia che più ci è simpatica, che risponde ai nostri gusti, accantonando l’altra. Non dimentichiamo che i tre apostoli privilegiati, che hanno assistito alla teofania luminosa della Trasfigurazione, sono gli stessi che saranno chiamati a partecipare alla manifestazione drammatica del Getsemani, dove il Cristo appare, non rivestito di luce, ma avvolto nella notte, inghiottito dall’oscurità, in preda alla paura e all’angoscia, nella solitudine più agghiacciante.

Il cristiano sa riconoscere sia nel Trasfigurato come nello Sfigurato il Figlio di Dio che chiede di fidarsi di Lui, di non esitare a ripercorrere la sua strada, affermando anche i passaggi meno graditi.

“La montagna” è il simbolo per eccellenza della vicinanza con Dio. E’ il luogo abituale delle rivelazioni divine. E’ sulla montagna che a Mosè ed Elia, i due personaggi dell’A.T., il liberatore e il profeta contestatore, che si intrattengono a colloquio con Dio.

La montagna per noi, significa la necessità di prendere la distanza, una distanza interiore, dal nostro universo quotidiano, dai nostri affanni, dalla nostra agitazione.

“In disparte”, lontano dal frastuono, nella calma della preghiera, in uno spazio di silenzio, ritroviamo noi stessi e percepiamo quella voce che ci interpella. Il punto culminante del racconto della Trasfigurazione non è rappresentato dallo splendore abbagliante del volto e delle vesti di Cristo, ma dal risuonare della voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo!”.

Come nella scena del battesimo al Giordano anche qui alla vigilia della Passione la voce esprime l’investitura dall’alto, il riconoscimento del Padre. “Ascoltatelo!”. E’ importante questo comando. Il discepolo non è l’uomo delle visioni, ma dell’ascolto. Non si tratta di vedere, di toccare il Signore. E’ essenziale ascoltare la sua voce, prendere sul serio il suo messaggio, lasciarsi mettere in discussione dalle sue parole. Ascoltare, non per saperne di più, per soddisfare la curiosità, ma per obbedire, prendere coscienza dei compiti che ci vengono assegnati, realizzare i progetto di Dio su di noi e sul mondo.

Quando si ascolta, non si allarga il campo delle nostre conoscenze teoriche, si allarga il campo del nostro impegno.

Anche il cristiano partecipa alla trasfigurazione. Pure il suo volto, la sua vita può subire una trasformazione radicale. Questa trasfigurazione, tuttavia, è frutto di un ascolto assiduo della Parola.

E le “capanne!” Cosa possono dirci? “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi farò tre capanne...”. La proposta di Pietro esprime un duplice equivoco. E’ il goffo tentativo di accapararsi il Cristo, piegandolo alle proprie esigenze e comodità, limitarlo nella sua missione, appropriarselo egoisticamente, bloccarlo nel suo movimento verso il compimento del disegno del Padre a vantaggio di tutti gli uomini. Inoltre Pietro confonde la pausa con il finale. Vorrebbe prolungare all’infinito quell’istante che invece dovrebbe servire a mettere in cammino.

Anche noi, come Pietro, vorremmo  “eternizzare” il riposo, la contemplazione. E’ bello rimanere tuffati nella luce. E’ esaltante rimanere assenti dalla lotta che si svolge laggiù, in basso.

Invece bisogna ridiscendere.

La montagna è bella, ma il luogo del nostro vivere quotidiano è l’asfalto, con la sua noia, la banalità, la fatica, le contraddizioni, il peso faticoso di certi incontri. La fede è impastata di luce e di oscurità, di certezze e di dubbi. di sicurezze e incertezze, di consolazioni e tormenti, di pace e di asprezze.

Il cristiano è uno che ha bisogno di assentarsi, di salire sulla montagna. Ma è uno che ha soprattutto il coraggio di riguadagnare la pianura, di riaffrontare l’asfalto.

Il cristiano cerca la luce perché non è soddisfatto del proprio volto. Per questo intende sottoporlo alla luce del volto di Dio. Per “rifarselo”.

Ma quando, dalla nostra faccia, cominciano a cadere i segni della paura, dell’egoismo, della pigrizia, dell’indifferenza, della furbizia macchiavellica, dell’interesse, della durezza, dell’orgoglio, allora possiamo. dobbiamo tornare col volto finalmente “guarito”, trasformato da quella luce, sicuri di non deludere le attese degli uomini.

Bisogna ridiscendere. Il nostro volto trasfigurato non ci appartiene,  va offerto agli altri. Bisogna ritornare in basso. Giù, qualcuno aspetta di vedere che cosa ci è successo, cosa siamo diventati dopo quell’esperienza.

Coraggio, amico, “non aver paura”.

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