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“Uscite, uscite sennò vi sparano!”

Angiolina Cilli racconta una triste pagina della storia di San Salvo: quel fatidico 3 novembre 1943…

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Angiolina Cilli, nata il 17 luglio del 1931 è una delle testimoni sansalvesi della seconda guerra mondiale ed è una delle sue vittime che ne porta ancora i segni. Il 3 novembre del 1943 una pallottola le ha strisciato il braccio e ha colpito a morte il nonno paterno Alessandro Cilli. Nonostante siano trascorsi ben 74 anni da allora e lei era solo una bambina di dodici anni, i suoi occhi si gonfiano ancora di lacrime nel ricordare quei giorni pieni di sofferenza umana e fisica.

Quali sono i tuoi primi ricordi della seconda guerra mondiale a San Salvo?

Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 tra Italia e Germania, i tedeschi si erano insediati nella vicina Cupello e il 18 ottobre sono arrivati anche qui a San Salvo. Appena avevamo saputo che i tedeschi erano vicini avevamo murato una stanza in soffitta per conservarci grano e tutte le cose più preziose che avevamo come corredi e macchina da cucire. Ricordo ancora il giorno 18 ottobre quando i tedeschi percorrevano le strade del centro e tramite il podestà di allora Giovanni Mariotti, ci intimava di uscire, di allontanarci dalle nostre case e di digerirci verso le campagne. “Uscite, uscite sennò vi sparano!” andava gridando il podestà. E così in flotta ci muovemmo verso le campagne di Cupello. Trascorremmo la notte in campagna, zona Piane di Marco, tutti spaventati: piangevamo e speravamo. Il mattino seguente ci siamo riavviati verso casa e durante il tragitto ci ha accolti Cesare Vicoli che abitava in periferia. Quando siamo tornati abbiamo ritrovato le nostre case tutte a soqquadro perché i tedeschi vi erano entrati e preso tutto ciò che potevano. Dal 19 ottobre ai primi di novembre eravamo tutti intimoriti dal rumore continuo  delle cannonate e dalle visite dei tedeschi che venivano ad ispezionare le nostre case per controllare che non nascondevamo dei nemici. Tra il 1 e il 2 novembre cominciammo a sentire le mitragliatrici e mio padre ci disse “devono essere gli inglesi”. I tedeschi qui a San Salvo avevano un solo carrarmato e per far credere che ce ne stavano di più, lo spostavano da una parte all’altra.

Cosa è successo in quel fatidico 3 novembre?

Noi abitavamo nella casa dove oggi hanno ricostruito la Casa della Cultura Porta della Terra. Lungo la via stavamo tutti affacciati perché pensavamo che stavano arrivando gli inglesi e invece il carrarmato tedesco stava battendo la ritirata passando per l’attuale corso Umberto I. E un soldato, forse per semplice paura, sparò verso di noi e colpì prima me al braccio sinistro e poi mio nonno che gridando “mam la schien!”, cadde a terra e morì. Gli inglesi già erano riusciti a entrare in paese e quel giorno stavano nascosti nella casa di Vito Di Falco, sempre nei paraggi di casa nostra. A un certo punto entrarono anche da noi e avevano alzato dei tavoli per mettersi di vedetta. Il carrarmato tedesco riuscì a scappare e gli inglesi allestirono un ospedaletto da campo di fortuna. Appena videro il mio braccio, effettuarono una disinfettata di fortuna e mi mandarono al volo tramite un’ambulanza da sola con altri malati “più avanti”.  Neanche i miei genitori erano potuti salire con me perché in autombulanza c’era posto solo per i feriti.

Cosa è successo dopo e cosa provavi in quei momenti?

Avevo solo 12 anni, stavo da sola, lontano dai miei cari e piangevo continuamente e disperatamente.  Arrivammo a un altro ospedale da campo a Termoli. Ma neanche lì nessun sanitario si poteva occupare del mio braccio che mi faceva sempre più male. Erano tutti impegnati a fare le punture ai soldati che dovevano partire per il fronte.  Cercava di placare il mio pianto un soldato in particolare con delle caramelle e dei soldi. Grazie a Dio durante questo pianto ebbi la lucidità di dirgli come mi chiamavo e il mio indirizzo. Il giorno dopo mi portarono all’ospedale di San Severo. Mio padre mi cercava disperatamente e insieme a un suo compaesano era arrivato fino a Termoli ma lì non aveva più tracce e mentre piangeva su un gradino di una casa, si ferma quel soldato a cui avevo dato i miei dati e lo indirizza verso San Severo raccomandandogli di dire a tutti che era uno sfollato. Io piangevo ancora di più anche perché era anche sopraggiunta la fame e ancora di più quando una signora di San Salvo che era anche lei ferita mi disse che i miei genitori non mi volevano perché avevano gli altri figli a cui badare.  Mio padre riuscì a trovarmi e appena mi vide si mise a piangere. E io piangevo disperatamente perché avevo fame non so da quanto tempo non mangiavo. La prima cosa che gli dissi “papà ti prego portami qualcosa da mangiare”. Il mio braccio non era stato medicato adeguatamente ed emanava cattivo odore ma io neanche me ne accorgevo. Vedendo che lì non mi curavano, mio padre mi prese e ce ne andammo di nascosto. Ritornammo all’ospedaletto da campo di Termoli e lì quello stesso soldato a cui avevo dato l’indirizzo riuscì a convincere un medico a operarmi il braccio. Ripartimmo per san Salvo e il dottore del paese Camillo Artese si occupò di me. Il braccio però nonostante tutto continuava a emanare cattivo odore finchè non individuò dei pezzettini di pallottola. I calvario per questo braccio è durato anche successivamente. Quanti guai ho passato, quante cose brutte ho visto e quanta è brutta la guerra!

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