Ho sempre nutrito una particolare ammirazione per Alfredo Borzacchini. E’ un’ammirazione lontana, che risale a quand’ero bambino, quando egli, d’estate, a bordo di auto fuoriserie, tornava da Milano alla sua natia piccola San Salvo, immersa nel dorato calore delle spighe di grano.
Alfredo a Milano faceva il cantante. Ricordo che una volta, nel 1966, durante un suo soggiorno estivo a San Salvo, mi regalò un suo disco, un 45 giri dal titolo “Non abbiamo più niente da dire”, che io facevo girare, consumandolo, in uno di quei primi giradischi, di bicolore vinilpelle, i primi esemplari degli anni 60.
Per me, che avevo da poco iniziato a strimbellare la chitarra, Alfredo era un mito. Pensare che da quel minuscolo altoparlante del giradischi uscisse anche la voce di un cantante professionista mio compaesano, insieme a quelle di altri cantanti famosi come Adriano Celentano, Mina, Little Tony, suscitava nella mia fantasia un senso di emulazione, facendomi sognare palcoscenici lontani. Il fatto, poi, che si dicesse in giro che Alfredo avesse sfidato Domenico Modugno in una gara canora, che non si fece mai , che avesse vinto il Festival di Nizza, che avesse partecipato a numerosi films a Cinecittà, che incidesse dischi a Milano, lo rendevano ancor più nella mia immaginazione di bambino un personaggio unico e leggendario.
Milano, com’era lontana Milano a quei tempi. Erano lontani Vasto, Cupello, figuratevi Milano. I dischi, poi, erano ancora per molta gente oggetti misteriosi, ancor più dei dischi volanti.
Anche nel Jukebox del bar di Vitarille in piazza San Vitale, un primordiale attrezzo che aveva un buco in plexigass in cui infilare la mano per mettere il disco (dopo aver dato 50 lire a Za’ Crestene - Cristina Marinelli, moglie di Vito Ialacci), insieme a quei primi 45 giri in vinile che risuonavano nel silenzio della piazza, vi erano i dischi di Fred Boris, di quel ragazzo di San Salvo, su cui, nessuno, ma proprio nessuno, come avrei saputo dopo, avrebbe mai scommesso una lira.
E’ difficile raccontare la storia di Alfredo. La sua vita è stata tutta un’avventura, una fiaba, un dramma, una vita spericolata, al cui confronto quella di Vasco Rossi fa quasi tenerezza.
In una società prettamente contadina, in cui l’educazione era solo ed esclusivamente il lavoro dei campi, Alfredo era un incompreso che non faceva nulla per farsi comprendere.
La guerra era passata accanto alla sua adolescenza con il padre al fronte. Secondogenito di Febo, che era stato un clown del famoso circo Borzacchini e che si era stabilito con la famiglia a San Salvo, Alfredo era considerato un po’ da tutti un mezzo scapestrato, un tipo senz’arte nè parte: strimpellava la chitarra, faceva il fachiro mangiafuoco, il pescatore con una barchetta a cui aveva dato il nome di “Simbad il marinaio”, insomma era un tipo stravagante, fuori dalla norma, un po’ difficlie da inquadrare.
Alfredo, sin da bambino era stato un monellaccio.
Si racconta che, come si usava a quei tempi, i bambini venivano mandati a “lu mastre” per imparare un mestiere. Alfredo venne mandato da Zi Peppe Bruno, il barbiere, facendosi però cacciare dopo qualche settimana a calci nel sedere per le sue continue marachelle. Alfredo per vendicarsi, catturò una civetta, la cosparse di benzina, le mise fuoco e la lanciò dentro la barberia, creando uno scompiglio tra i clienti, che spaventati fuggirono fuori dal salone, compreso l’insaponato cliente di turno.
Da adolescente il suo carattere ribelle, poco incline ad accettare le regole comportamentali che la società dell’epoca imponevano, lo rendevano agli occhi degli adulti tristemente unico, anche se era uno spasso per i suoi coetanei trascorrere insieme a lui le serate in allegria: Alfredo ne sapeva e ne inventava sempre una più del diavolo.
Durante la guerra la sua vita non fu facile. Con il padre prigioniero degli inglesi in Africa, al contrario delle famiglie contadine che avevano un tozzo di pane nella “credenza”, Alfredo per mangiare doveva fare i salti mortali, non quelli del circo di cui ne era anche capace avendo il sangue circense che gli scorreva nelle vene, ma quelli che la vita quotidianamente impone tutt’oggi a chi non sempre ha la certezza di avere un pasto caldo assicurato in tavola.
Nonostante i tempi fossero grami, e non solo per lui, tra stenti ed affanni, Alfredo continuava a vivere la sua gioventù in modo spensierato, o forse apparantemente spensierato. Molte volte, dinanzi ai problemi della vita, incosciamente, in ognuno di noi, scattano dei meccanismi interiori, come dei salvavita, che ci illudono e ci aiutano a sopravvivere, facendo apparire a noi stessi ed agli occhi degli altri, una parte di ciò che siamo, nascondendo quel che veramente siamo.
Forse era proprio questo ciò che stava accadendo ad Alfredo.
Quando suo padre tornò dalla prigionia in Africa le cose peggiorarono. I suoi rapporti con papà Febo divennero sempre più complessi. Febo, che aveva abbandonato il circo e cercava di campare facendo l’elettricista, (nonostante la sua famiglia continuasse ancora l’attività circense), si scontrava spesso con il figlio, ormai grandicello, e pretendeva da lui che lo aiutasse nel suo lavoro di riparare le linee elettriche distrutte dalla guerra.
Alfredo di fare l’elettricista proprio non ne voleva sapere, anzi rimproverava al padre di essersene andato volontario in Africa, abbandonando la famiglia per lunghi 4 anni, a cui aveva dovuto pensare lui.
Fu così che una sera, dopo una delle solite discussioni, Alfredo se ne andò di casa.
Se fu Alfredo ad andarsene o fu il padre a cacciarlo, questo resterà sempre un mistero. La gente dice che lo cacciò Febo, il figlio sostiene il contrario e non vi è motivo per non credergli.
Fatto sta che l’orgoglio poi fece il resto.
Quella sera, e per tante altre ancora, Alfredo non rientrò a casa, andandosene a dormire dentro una botte, come Diogene. Con l’arrivo della primavera si trasferì al mare, che all’epoca era un deserto, si costruì sulla sabbia un capanno di paglia e sterpi, e dopo essersi procurato una barchetta, a cui diede il nome di “Simbad il marinaio”, si mise a fare il pescatore. Ogni giorno usciva in mare aperto, pescava, e con il ricavato dei pesci, campava e passava anche qualche soldo alla mamma (per questo motivo Alfredo può essere considerato anche il primo pescatore di San Salvo).
Con l’arrivo dell’autuno e dei primi freddi, la botte ritornò ad essere il tetto di Alfredo.
L’inverno era rigido. Suo zio Pompeo Marzocchetti, che aveva sposato Olanda Borzacchini, sorella di Febo, accorse in suo aiuto. Pompeo, che aveva aperto a quei tempi il primo locale cinematografico a San Salvo nell’attuale Via San Giuseppe (che poi diventerà l’Odeon di Biondo), mosso da umana pietà, gli disse di andare a dormire nel cinema.
Alfredo accettò l’invito, prese le sue poche cose e si trasferì al cinema di zio Pompeo, dove ogni sera, al termine delle proiezioni, si creava un giaciglio su un palchetto in mattoni, realizzato per l’esibizione di artisti girovaghi, che ogni tanto facevano tappa a San Salvo (resta famosa l’esibizione della Donna-Uomo, un’artista che dalla cintola in su era un uomo con la barba e per l’altra metà donna).
Intanto gli anni erano trascorsi ed Alfredo era divenuto maggiorenne.
Arrivò anche per lui il tempo del militare ed Alfredo si arruolò volontario nella Guardia di Finanza, facendo tirare un sospiro di sollievo a Febo, che sperava che il figlio avesse messo finalmente la testa a posto.
Ma non durò a lungo. La divisa ad Alfredo gli andò dopo un po' stretta e dopo averne combinata una delle sue, che non sto qui a raccontarvi, fece ritorno a San Salvo.
Il ritorno a casa fu traumatico.
Non sapendo più che pesci pigliare (la sua barchetta Simbad il marinaio, venne trasportata dalle correnti durante una mareggiata e pare la ritrovarono nel Tirreno), Alfredo si ricordò di avere gli zii paterni che avevano ancora ciò che restava del famoso Circo Borzacchini, ormai orfano di Febo, Olimpia e Tomassina, ma ancora composto dai fratelli Borzacchini e cioè dal primogenito Umberto, da Saverio (ottimo chitarrista e sassofonista), e dalle sorelle Fanny, Giuseppina e Maria.
Alfredo lasciò San Salvo e se andò a Casalbordino, paese in cui si ritirava per l’inverno il circo ed imparò a fare il trapezista ed il fachiro mangiafuoco.
Ma anche lì dopo un pò si scocciò (nel mondo del circo, non sembra, ma vi è molta disciplina) e se ne ritornò a San Salvo, dove ogni sera si esibiva con gli amici strimbellando la chitarra (famosa resta la sua canzone Don Peppì, che anni dopo incise e che potrete ascoltare a fondo pagina) o facendo il fachiro mangiafuoco. Si racconta che una sera, mentre faceva il fachiro, tra una fiammata e l'altra, non si pulì bene il muso con il fazzoletto, avvampandosi mezza faccia con la fiamma di ritorno. Non successe nulla ed uscì a risate.
Fu in quel periodo che Alfredo, ormai più che maggiorenne, forse per la prima volta nella sua vita, intuì di non avere molte prospettive in paese e decise di partire in cerca di futuro. “Figlio mio, ricordati che i cani randagi muoiono sul marciapiede”, gli disse suo padre Febo accompagnandolo alla stazione”.
Alfredo la prese male, molto male non intuendo che quelle parole erano solo un ammonimento profondo e paterno, che avevano il solo scopo di spronarlo a comportarsi bene nella vita. Salì sul treno e con la rabbia in corpo partì, ansioso di dimostrare innanzitutto a se stesso e poi a suo padre che si stava sbagliando sul suo conto, che egli non era e non poteva essere paragonato ad un cane randagio.
Salì alla stazione di San Salvo e scese a quella di Pescara.
Per guadagnarsi da vivere si portò con se la chitarra ed iniziò a frequentare i migliori ristoranti della citta abruzzese, nei quali si esibiva come cantante, guadagnandosi i primi soldi ed i primi apprezzamenti artistici.
Conobbe in quel periodo un vecchio pianista di Pescara di nome Vittorio Di Fonzo. Insieme scrissero una canzone dal titolo “Lasse stà”. Lo spartito venne inviato a Nizza al 40° Festival de la Chanson Italienne del 1959, sperando che la canzone venisse selezionata dalla commissione esaminatrice nella categoria riservata alle canzoni napoletane.
Grande fu la sua sorpresa quando gli arrivò la lettera che lo invitava a partecipare al Festival di Nizza.
Alfredo, non se lo fece ripetere due volte, inforcò la motocicletta e si recò a Nizza, che non era proprio dietro l’angolo, dove bagnato fradicio di pioggia arrivò in ritardo, quando l’orchestra aveva già terminato le prove.
“Senza prove non si canta!”, gli urlò irrremovibile il maestro quando se lo vide arrivare.
Il suo grande sogno stava per infrangersi contro il podio del maestro d’orchestra.
Ma Alfredo, che quando si trattava di litigare era un maestro più del maestro d’orchestra, gli rispose prontamente:”Non so che farmene della tua orchestra! Canterò da solo! Mi accompagnero con la mia chitarra”.
Al termine dell’esibizione il pubblico si alzò in piedi e lo acclamò con un caloroso applauso.
Fu un tripudio.
Alfredo vinse il Festival. Era la sera del 5 marzo 1959.
Giorgio Consolini, uno dei più grandi cantanti italiani del dopoguerra, gli strinse la mano congratulandosi.
Alfredo scrisse DON PEPPI' quando era ancora un ragazzo e la faceva ascoltare ai suoi amici sansalvesi accompagnandosi con la chitarra. Si racconta che la scrisse per Don Peppino De Vito che aveva avuto un incidente con l'auto mentre era in compagnia di una ragazza, prima del matrimonio. Pare che Don Peppino, da sempre suo amico, gli offrisse delle sigarette affinchè la smettesse di cantarla. Alfredo la incise con la COMBO RECORD quando divenne cantante professionista a Milano ed incideva canzoni popolari. Don Peppino De Vito, interpellato da me a tal proposito, ricordando la simpatia di Alfredo, mi ha detto sorridendo di non aver avuto incidenti d'auto invita sua. MISTERO.
La canzone, un walzerino, è orecchiabilissima. Tenete presente che all'epoca non vi erano tutte le attrezzature di oggi, computer,registratori multipista ecc. con i quali intervenire per modificare la voce o il suono.
Tutto era fatto dall'uomo.