Paolo Daniele Di Mattia, un ingegnere meccanico in seminario

Maria Napolitano
29/09/2018
Personaggi
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In questi giorni le tre parrocchie di San Salvo sono arricchite dalla presenza di dieci seminaristi provenienti da diversi paesi di Abruzzo e Molise. Quattro seguono la vita parrocchiale di don Raimondo Artese, quattro  don Beniamino Di Renzo e altri due don Mario Pagan. Di seguito il racconto della vocazione di Paolo Daniele Di Mattia.

Chi era Paolo prima di entrare in seminario?

Sono nato nel 1975 in Canada perché i miei genitori vi erano emigrati per lavoro. Quando avevo 3 anni siamo tornati a Teramo nella nostra patria. Sono l’ultimo di cinque figli e dalla mia famiglia ho appreso il valore del lavorare con onestà e dando il meglio di sé. Assolto al “dovere” della cresima la chiesa per me era qualcosa di completamente indifferente. Dopo il liceo scientifico mi sono iscritto alla facoltà di Ingegneria meccanica perché era risaputo che offriva maggiori sbocchi lavorativi. Infatti da quando mi sono laureato non ho mai dovuto fare una domanda, sono sempre state le aziende a contattarmi. Mi sono laureato con il massimo dei voti. Ancora prima di laurearmi ebbi l’opportunità di andare in un importante azienda di Torino come progettista. Nonostante fosse un lavoro che intellettualmente dava un sacco di soddisfazioni mi sembrava freddo, fondamentalmente individualista. E io che comunque provenivo da una famiglia numerosa fatta anche di cognati e nipoti e con cui spesso e volentieri ci ritrovavamo tutti insieme attorno a uno stesso tavolo, mi mancavano i rapporti di condivisione umana.  Appena laureato mi chiamò una ditta di Sambuceto e accettai ad occhi chiusi: mi permetteva di riavvicinarmi a casa, stavo vicino al mare e mi si proponeva un lavoro in cui dovevo raccordare venti tecnici. Anche se ero il loro capo non mi sono mai messo su un piedistallo: come avevo appreso da mia madre nella gestione di noi cinque figli, cercavo di acquietare gli animi, far tacere le tensioni, mettermi in prima persona a fare qualcosa in più rispetto a quelli che erano i miei compiti. Ognuno dava il meglio di sé. Oltre a un ottimo stipendio avevo anche tanti benefit come appartamento, macchina, cellulare e simili. Come lavoro per me era perfetto. Dopo un po’ ebbi anche la possibilità di crescere ulteriormente: mi avevano affidato la gestione di una succursale. Solo che tra i responsabili che comunque doveva essere un mio subalterno c’era uno che non faceva bene il suo lavoro. Lo feci presente ai titolari ma loro mi risposero: “lui è un raccomandato, non lo possiamo né spostare e né licenziare”. A malincuore lasciai quell’ azienda: per me era inconcepibile una cosa del genere. Nel giro di pochissimo tempo sono stato contattato da un’azienda che doveva gestire la manutenzione dell’ospedale di Atri. Oltre al personale della mia azienda dovevo raccordare anche quelli della Asl che avevano a che fare con la manutenzione. Ironia della sorte dopo un po’ scoprii che una grossa fetta di loro erano dei raccomandati intoccabili.

Quando e come hai incontrato Gesù nella tua vita?

A 29 anni proprio nell’ospedale di Atri. Ero andato in cappella per distruggerla perché aveva degli spazi molto ampi ed era posizionato in un luogo strategico e ci si doveva costruire qualche altro reparto. Premetto che io non sapevo né chi era un cappellano e né che esisteva una messa quotidiana. Mentre stavo prendendo le misure, il cappellano mi chiamò: “ingegnere mi leggi la lettura per favore?”. Siccome nella platea c’erano solo due malati su una carrozzella e qualche vecchietta, acconsentii. Dovevo leggere il passo in cui Davide ordinava di uccidere il marito di Betsabea. In quel momento della mia vita che coltivavo rapporti anche con donne sposate mi colpì un sacco. “Ma c’è un Signore che si occupa anche di queste cose? In fondo questo libro racconta di fatti che sono successi tanto tempo fa e sono comunque così attuali?”. Siccome avevo un ruolo di grande responsabilità e potevo rispondere anche per errori di altri, per evitare rischi avevo preferito alloggiare lì. Con grande stupore di me stesso mi ritrovai a partecipare ogni giorno alla messa quotidiana della cappella e a leggere la bibbia sul cellulare. Nell’arco di un anno sono riuscito a leggerla tutta. Alcuni dei miei collaboratori si accorsero che qualcosa stava cambiando in me e una responsabile infermieristica che frequentava un gruppo del Rinnovamento mi regalò una bibbia. Tra i miei subalterni c’erano alcuni che vivevano la fede in maniera molto profonda ed erano anche stati capaci di perdonare l’imperdonabile. Queste persone mi incuriosivano molto. Io sono sempre stato una persona estremamente razionale e quella dimensione e bisogno di spiritualità mi stupirono profondamente e trasformarono anche i miei obiettivi lavorativi. Grazie anche a quelli che io chiamo i miei “barellieri”, in ospedale abbiamo applicato il vangelo alle nostre mansioni: ciò che facevamo non era più fine a se stesso ma a servizio dell’altro e soprattutto del malato. La cappella ovviamente poi non è stata distrutta ma restaurata.

E l’idea del seminario quando è arrivata?

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