Mi sveglio presto, saluto, esco. Vengo qui, di fronte al mare, ed inizio a pensare. Alle mie spalle c'è un bar.
Sul muretto del lungomare qualcuno ha scritto delle frasi, una parla del terremoto: “309 morti, nessuna giustizia... L'Aquila non si dimentica!! TERREMO TOSTO”.
Anche io terrò duro. Il bar apre dopo di me, scendo dall'auto, entro.
- Un caffè. - Hanno tazzine con motivi afro, strette, alte. - Lo zucchero di canna? Ah, ok, grazie. -
Mi torna in mente una persona conosciuta di recente, Mario Di Bronte. Sostiene che, scrivendo, si può incorrere nella sindrome della tazzina di caffè. Detta patologia consisterebbe nell'eccedere di “vuoto manierismo autoreferenziale” e si manifesterebbe nel “descrivere minuziosamente le operazioni inerenti la preparazione e la successiva degustazione della suddetta bevanda”.
Non mi fido di lui. Ha troppi capelli, e ricci per giunta.
In generale non mi fido dei maschi con troppi capelli (ricci per giunta). C'è un'altra categoria di persone di cui non mi fido: quelli che non amano Morrissey e The Smiths.
Giro il caffè, anzi lo zucchero nel caffè, anzi il cucchiaino nella tazzina. Si, il cucchiaino gira nella tazzina e lo zucchero si scioglie. Eccola la sindrome!
Ce l'ho, tanto vale coltivarla. Sorriso (e pace) interiore.
Ripenso a quando mi chiesi quale fosse il procedimento chimico-fisico alla base di questa pozione magica e marrone. Distillato? Infuso? No. Né vapori né attese, il caffè è veloce (in Italia). Ho scoperto che questo miracolo avviene grazie ad un processo chiamato percolazione, “passaggio di un liquido attraverso una sostanza o materiale poroso allo scopo di suscitare reazioni chimiche e/o di sciogliere le sostanze contenute nella sostanza o materiale che eserita un'azione filtrante". Incredibile! Quello che la maggior parte di noi prende per colazione avviene grazie alla percolazione!
Bevo il mio caffè poco prima che lo sguardo del barista muti da “sorridente” a “gentilmente ostile”.
- Buono. - Pago, saluto, esco, sigaretta. Si, fumo ancora, pacchetto morbido senza quegli spigoli che ti bucano le gambe mentre sta in tasca.
Il dj RANDOM, che si nasconde tra gli mp3 della radio dell'auto (perché la parola “autoradio” non la sopporto), mi propone The Smiths, “How soon is now”. Ottima scelta ma non l'ascolto: è poco Smitshiana; qui il demone di Jim Kerr si era insinuato tra gli arpeggi di Johnny Marr. Cerco “Still ill”.
Ripenso a quella sera in cui, forse il solito buon Mister Fantasy Massarini, passò un loro breve live. C'era questo ragazzo che cantava con un mazzo di fiori in tasca. E cantava proprio “Still Ill”. Bastarono quei tre minuti.
Non è possibile non amare The Smiths e/o Morrissey!
Vuol dire rifiutare in blocco la letteratura inglese (Wilde, Keats and Yeats ). Vuol dire aver passato gli anni ottanta dormendo, o peggio, ascoltando gli WHAM!.
Vuol dire non aver visto mai quella “luce che non si spegne mai”[1] o non essersi mai chiesti “does the body rules the mind or does the mind who rules the body?”[2]. Vuol dire, in generale, aver avuto sempre troppe certezze. Per me, nato nel 1969 (anno numericamente hard-core), e per la mia generazione sono praticamente i BEATLES ed i ROLLING STONES insieme.
Senza questa band, senza questo proto-nerd che “trascorreva calde giornate estive al chiuso scrivendo versi per una ragazza dai denti sporgenti del Lussemburgo”[3] la mia vita sarebbe diversa. Meglio? Peggio? Non verificabile. Anche la pelle del mio petto sarebbe diversa.
Bene. Se stai pensando “ma tutto questo, in fondo, vale per te” sappi che di te non mi fiderò mai fino in fondo.