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Il vino cotto (Lu vene cotte)

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Un tempo San Salvo era nota nel territorio per la sua tradizionale produzione di vino cotto. La tradizione si perdeva nella notte dei tempi, secondo le necessità delle vecchie famiglie di contadini di avere un vino più facile da conservare e più efficace per l'apporto di calorie, necessarie a svolgere un lavoro molto duro dispendioso di energie, come quello praticato nel mondo rurale, quasi primitivo d'allora.

In genere ogni famiglia di contadini con il suo modesto podere, in proprietà od in mezzadria, aveva un metodo proprio per ottenere dell'ottimo vino cotto, sia per l'uso domestico che per quello destinato alla vendita. La quale veniva praticata solo dalle famiglie tradizionalmente propense alla sua produzione, relativamente alla propria situazione terriera che mediamente, ad eccezione di pochissimi possidenti, difficilmente superava un'estensione di 3 o 4 some, di cui una parte consistente era coltivata a vigneto da terra, intendendo con questa definizione quei vigneti autoctoni molto bassi.

Le viti di uva nera o bianca erano piantati ad una distanza di circa un metro e sostenute da canne scelte, provenienti dall'annesso canneto del podere.   

Le viti, complessivamente alte circa un metro, erano allineate nella parte del terreno più conveniente a poterle lavorare. Tra i lavori vi era quello basilare cosiddetto di "fare a cambretta", consistente nell'avvolgere i tralci delle coppie di viti contigue, tanto da formare visivamente lunghi filari, appunto, da sembrare vaghe camerette dalle volte curve, distinguibili dalle canne alte il doppio delle viti stesse. 

Oltre l'intreccio dei tralci, il lavoro si completava nel diradare ed eliminare il loro sviluppo selvaggio.

In genere, quel tipo di vigneto, aveva nella sua naturale produzione, una durata di circa 30 anni, che un buon contadino riusciva ad allungarla e migliorarla, sostituendo in corso d'opera, le viti esauste con la messa a dimora di nuove barbatelle o utilizzando le propaggini di quelle più vicine.  

Per cui, secondo i dettami dell'economia autosufficiente d'allora, i contadini, lasciando inalterati i vigneti, od anche gli uliveti ove esistenti, riservavano al resto dei terreni la rotazione di altre colture, quali il grano, granturco, erbasulla, fagioli, ceci, fave e piselli, oltreché l'indispensabile orto a pomodori, peperoni e quant'altro abbisognava alle proprie necessità domestiche.

Ma, tornando alla produzione di vino cotto, essa derivava, come già accennato, in massima parte da uve nere, con sapiente miscela di quelle bianche.

L'ottima qualità di esse portate alla giusta maturazione, unitamente alle adeguate successive lavorazioni, produceva già dall'origine, un ottimo mosto dall'odore intenso fruttato, di colore vagamente bruno. Il quale veniva messo a fermentare nelle botti di rovere, lasciando lo spazio per l'aggiunta graduale e dosato del mosto cotto, ridotto ad un terzo del suo volume originale.  

Le varie dosi di cotto e le giuste miscelazioni delle uve, davano la firma d'autore al vino, così sapientemente ottenuto dal suo produttore.

La bollitura del mosto avveniva, tramite capienti caldaie di rame, alimentate da fuoco costante di legna di quercia ed ulivo, ed essendo quest'operazione, spesso contemporanea di più contadini dislocati nei vari quartieri, lasciava il paese avvolto da un alone di profumo dolciastro che permeava sino all'interno delle case.

Il vino cotto di San Salvo, come ricordato all'inizio, era ben conosciuto ed apprezzato nel territorio che richiamava diversi estimatori di paesi limitrofi per il suo acquisto, abbinandoci spesso, anche qualche rara bottiglia di solo mosto cotto, che gli oculati produttori serbavano in piccola quantità per gli svariati usi culinari.

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