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La Vecchia Europa e il bisogno di Dio, le riflessioni di Monsignor Bruno Forte

Alcuni contenuti della lectio magistralis tenuta a Salisburgo dall'Arcivescovo di Chieti-Vasto per il premio di teologia

a cura della redazione
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Il 3 Agosto a Salisburgo, in occasione del ricevimento del prestigioso riconoscimento del "premio di teologia", Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo della Diocesi di Chieti-Vasto, ha tenuto una lectio magistralis dal titolo "La Vecchia Europa e il bisogno di Dio". Di seguito alcuni passaggi: Ben si comprende perché risulti significativo parlare di “sicurezze” in un mondo attraversato da inquietudini e sconvolgimenti com’è il nostro di inizio millennio: sui flutti agitati del naufragio delle ideologie moderne, nelle brume di una post-modernità dove l’altro è diventato spesso soltanto uno “straniero morale” e la folla delle solitudini ha trasformato in arcipelaghi le antiche convivenze, più o meno inevitabilmente solidali, la ricerca di un’àncora cui appigliarsi è tutt’altro che ingiustificata. Da una parte il sogno che pervadeva i grandi processi di emancipazione nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese appare oggi ai più utopia oramai in declino; dall’altra, la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna lascia aperto lo spazio a una generale insicurezza, che facilmente si trasforma in deserto etico e riflusso nel privato. Come avevano affermato Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro profetica Dialettica dell’Illuminismo, “la terra interamente illuminata risplende all’insegna di trionfale sventura”. La moderna “società senza padri” non ha generato figli più liberi e uguali, producendo anzi dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si sono offerti come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “maschera” rassicurante e bonaria delle false promesse e delle rassicurazioni a buon mercato. Siamo tutti più soli, più incerti nella prigione delle nostre solitudini, più esposti al rischio della rinuncia ad amare. In questo tempo di “notte del mondo” (Martin Heidegger) ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. L’uomo sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo daJean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”). Di fronte all’assenza del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. La crisi economica ha indebolito anche la scappatoia del consumismo allegro, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile. Le logiche “rifugio” settarie, etniche, nazionalistiche o regionalistiche,appaiono sempre più deludenti. Proprio questo processo mostra però come tutti abbiamo bisogno di un padre madre comune, che liberi dalla prigionia dei frammenti e dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti. È questa forse “la nostalgia del Totalmente Altro”, di cui parlava Max Horkheimer? Si tratta di una vera “ricerca del senso perduto”, ben altra dalla romantica “recherche du temps perdu”, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di ciòche è penultimo e fondare eticamente la prassi? C’è chi scommette sulla possibile riscoperta dell’altro, constatando come il prossimo, per il solo fatto d’esistere, possa essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore. C’è chi non esita a parlare di una riscoperta del sacro rispetto a ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno,che potrebbe definirsi genericamente religioso: sete di un orizzonte ultimo, di una patria che non siano quelli manipolanti e violenti dell’ideologia. D’altra parte, non ci sarebbe poi da stupirsi se nel profondo dei cuori si affacciasse l’indistruttibile nostalgia del volto di Qualcuno, capace di accogliere il nostro dolore e le lacrime e di redimere l’infinito dolore del tempo. Sentiamo qui tutta la perenne modernità di Agostino: “Ci hai fatto per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposi in Te”. Guardando ai processi in atto in Europa, segnata dalla crisi planetaria ben più di quanto facili ottimismi facessero prevedere, non esiterei a riconoscere nei più una condivisa domanda, voce del bisogno di un’àncora e di un approdo, dove far riposare il nostro disgusto di fronte alla politica di piccolo cabotaggio e la nostra stanchezza di fronte al male di vivere. È l’appiglio necessario da cui ripartire, il “contraccolpo” indispensabile per risvegliare le energie sopite e rimboccarci le maniche per un mondo migliore. Se la modernità occidentale ha consumato nei confronti di Dio il suo rituale “assassinio del padre”, volto ad affermare la propria indipendenza e autonomia, dall’angoscia e dal vuoto che ne sono derivati non si esce che per una scelta coraggiosa e umile: tornare a riconoscere l’unica sicurezza che non ci deluderà mai, quella che solo l’Eterno può darci. Veramente, come diceva l’ultimo Heidegger “solo un Dio può salvarci”: non un qualunque volto del divino, ma quel Dio che è l’oggetto della buona novella. Più che mai il cristianesimo e il suo vangelo del Dio amore sono necessari alla nostra vecchia Europa, a ognuno di noi chiamato a scegliere fra volersi “gettato verso la morte” o “mendicante del cielo”, fra “vanità” o “verità”, pellegrino verso un domani, dove sia patria a tutti l’abbraccio benedicente del Padre. La sola sicurezza che potrà salvarci è quella di questo padre madre che ci ami rendendoci liberi, non quale concorrente della nostra libertà, ma fondamento di essa, garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore: qualcuno che sani l’angoscia con la medicina dell’amore, e risani non di meno la paura che abbiamo di perdere la nostra libertà facendoci sentire amati in un modo che non crei dipendenze. Esprime quest’attesa con struggente intensità l’invocazione di una delle coscienze più rappresentative del cosiddetto “secolo breve”: Edith Stein. Filosofa, allieva e collaboratrice di Husserl, figlia d’Israele, testimone solidale della più grande delle tragedie del suo popolo,innamorata di Cristo, formata alla “scienza della Croce”, questa donna singolare, che ha scrutato come pochi il cuore umano, scrive poco prima di morire ad Auschwitz: “Chi sei, luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore? Tu mi guidi come la mano di una madre, ma se mi lasci non saprei fare neanche un passo solo. Tu sei lo spazio che circonda l’essere mio e lo protegge. Se mi abbandoni cado nell’abisso del nulla, da cui mi hai chiamato all’essere. Tu, più vicino a me di me stessa, a me più intimo dell’anima mia - eppure sei intangibile e di ogni nome infrangi le catene: Spirito Santo - Eterno Amore”. Parole che sembrano scritte per noi, cercatori di senso e mendicanti d’amore di quest’Europa degli inizi del terzo millennio.
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