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...quando i Salvanesi facevano i porci

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Negli anni precedenti l’ultima Guerra Mondiale e nel dopoguerra, la popolazione salvanese non ha quasi mai sofferto la carestia. Erano pochi quelli che non avevano almeno un tozzo di pane da mettere sotto i loro denti. Le famiglie meno abbienti, quando esaurivano l’ultima goccia di olio, picchiavano alle porte del vicinato; tornavano a casa quasi sempre con le mani piene. Dominava il sentimento di fratellanza. Quasi ogni famiglia aveva il suo appezzamento di terreno. Chi non aveva il suo campetto, andava ad aiutare i contadini in campagna (jàve a jurnàtë). Pane, olio, vino, legumi e verdure non sono mai mancati nelle case dei Salvanesi. I commercianti di Montenero di Bisaccia partivano presto con i carretti e venivano a San Salvo a riempire i loro barilotti di vino. Ciascuna famiglia comprava il maialino (lu purchèttë) alla fiera di San Rocco (il 16 di settembre). Dopo una settimana, il porcellino veniva castrato da “lu sana purcéllë”. Mangiava a lu tròcchile (trogolo), quasi di tutto: ghiande, ceci, granoturco, fave, crusca de la livatìhure (acqua con cui era stata cotta la pasta). Per evitare che il maiale , a volte lasciato libero nel cortile o nello stazzo, scavasse il suo terreno, il padrone gli metteva due fili di ferro (li ciarcìllë) nel muso, così che sentendo il dolore quando il maiale sollevava i mattoni dal pavimento della rimessa, non rovinasse il terreno. La mattina di Santo Stefano le famiglie iniziavano a ffà lu pòrcë (ad ammazzare i maiali). Appena l’acqua stava per iniziare a bollire, arrivava lu scannatòrë (l’ uomo esperto nell’ uccidere e pulire il maiale). I parenti e gli amici non facevano mancare il loro aiuto. Al bambino o a qualche ragazzo gli si diceva per scherzo di reggere la coda. Il sangue veniva raccolto in un recipiente per fare lu sanghinaccë. Le donne, alla fine dei “lavori”, mettevano a cuocere lu cif e ciaf ( pezzi di carne del collo del maiale conditi con spicchi d’aglio e peperoni rossi seccati). Ballavano e cantavano fino a tardi. Le salsicce, le soppressate, le ventricine, le nnujie, venivano infilati nelle pertiche e lasciati ad asciugare dal calore e dal fumo del fuoco del caminetto. La mattanza si fermava verso la metà di gennaio. Non esisteva ancora il frigorifero, pertanto gli insaccati si conservavano nell’olio dentro grossi cocci di terra cotta. Non tutti potevano permettersi di avere il maiale; a volte lo allevavano e lo vendevano per ricavare un po’ di denaro. La sera della Vigilia di Natale si accendeva il ceppo più grande perché doveva rimanere acceso tutta la notte. Le abitazioni non avevano il riscaldamento con i termosifoni. Per alleviare il freddo intenso si usava lu fucùlare e il braciere. Le donne si tenevano lontane dal braciere perchè faceva uscire le macchie rosse sulle gambe (li vàcch’). Una mezz’ora prima di coricarsi veniva infilato una struttura in legno su cui si poggiava il braciere . Ricordo che si chiamava lu predd (il prete). Che caldo? Nella “camera da letto” non poteva mancare lu pisciatòre, quando le case non disponevano di gabinetti. Oggi, tutto è cambiato. Le urla dei maiali non si sentono più nell’aria. Poche famiglie “fanne lu porce”. Ormai, basta entrare in una delle tante macellerie di San Salvo, dove si vende di tutto. m.m.
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