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La preparazione della pasta nera abruzzese

La tradizione da nonna a nipote

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La preparazione della pasta nera abruzzese

In ricordo di mia nonna Maria 

Nonna Maria era originaria di Roccascalegna, o meglio di una sua frazione, Fontacciaro: poche case infilate su una salitina nella campagna che si va trasformando in montagna, verso la Majella, un rio timido e quieto, ma durevole, e larghi pascoli abruzzesi. Nonna è poi cresciuta a Torricella Peligna e, poco dopo sposata (tanto, troppo giovane) si trasferì a San Salvo con suo marito e i suoi figli, quando aprì la "Siv". Nonno Ettore al Villaggio Siv non ci voleva vivere, diceva che lo Stato si doveva occupare dei cittadini, e che il Comune doveva farne le veci, e quindi andarono a vivere prima in un vico di Via Madonna delle Grazie, sotto la chiesetta, e poi, per la gioia di nonno ed il silenzioso assenso di nonna, alle case della cooperativa sociale della 167, acquistate con contributo statale.

Nonna non si è mai sentita sansalvanese. Faceva delle sagne a pezzi strepitose, ma alle Sagnitelle non ha mai voluto partecipare. Da piccola, com'è ovvio, degli affari umani non capivo nulla, non conoscevo la nostalgia, il rimpianto, il ricordo. Nonna è dovuta andare sul Rio Eterno, affinché io cogliessi il perché della sua solitudine, della sua reticenza. Perché sì, è vero che da bambini non capiamo niente degli affari umani, ma è proprio quella la meraviglia: innegabile il desiderio di ognuno di vivere nei piccoli panni dell'infanzia, in un eterno presente immaginifico, età dell'oro personale, primo motore immobile. Il cuore di nonna è sempre stato sul Rio Secco di Fontacciaro , con le mani nella terra, l'odore delle pecore, delle galline e dei conigli, le fronti sudate e le punte dei capelli bruciate dal sole. Dove ogni cosa è cura, immensa ed immediata cura tra ogni elemento. 

Nonna non parlava molto di sé. Antichi dolori inesprimibili la spingevano a fare finta di nulla. Ma in quella finzione, la Verità prorompeva dalle sue mani quando preparava la pasta, quando coltivava e infornava melanzane, peperoni, patate, quando con amore geometrico rifaceva i nostri letti la mattina, quando esprimeva quell'antichissimo essere donna, custode di legami, di doveri, di sogni e piaceri.

Un piacere dolcissimo era quello di preparare assieme la pasta nera per i cuori, le pupe, i cavalli e le colombe di Pasqua. L'ultima volta l'abbiamo fatto nel 2013, e oggi, a distanza di 10 anni, per la prima volta l'ho impastata da sola. Quando ho tostato le mandorle, prima di tritarle, l'odore che si è sprigionato mi ha fatto rivedere le sue belle mani che si muovevano sulla spianatoia, un quadrato quasi perfetto dove la donna è Maestra e inventa, crea, plasma, espande, dà vita. L'ho fatto anche io. Ho vissuto ore di sinestesia, di effluvi, di attese, di calcoli e desta attenzione, e ho ritrovato nelle mie mani lo stesso filo della tradizione che le donne abruzzesi si passano di generazione in generazione, arrotolato in un gomitolo di lana o dispiegato tra gli scaffali di una cucina. Mi sono detta che sì, nonna mi manca, mi mancherà sempre, ma è vano indugiare su quel filo a terra, rimpiangendo la persona che prima lo snodava ed ora non c'è più: meno vano è riprendere il filo e continuare a snodarlo come posso, con le mani sporche di farina o di terra, con l'uncinetto tra le dita, con l'occhio curioso e il passo sempre meno incerto. E soprattutto, adesso, con quel filo formare nodi di cuori, nodi d'amore che non vogliano sciogliersi, che possano ancora essere simboli di profondi legami. 

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