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L'intervento del Professor Artese su La Porte di la Terre

La sintesi del convegno sull’ omonimo libro di Angelo Pagano tenutosi a San Salvo nel 2003

a cura della redazione
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Di seguito pubblichiamo una sintesi dell’intervento del professor Giovanni Artese al convegno sull’omonimo libro di Angelo Pagano, tenutosi a San Salvo nell’anno 2003. “La Porte di la Terre:” il libro e l’opera teatrale che contiene Il termine rinascimentale Terra sta ad indicare l’abitato; e dunque la Porta denominata “della Terra” costituiva l’uscita o l’uscita principale dall’abitato. La tipologia architettonica della vecchia Porta della Terra era non a caso cinquecentesca; periodo nel quale, come si osserva da una rappresentazione settecentesca dell’Antinori, tutto l’abitato di Santo Salvo era chiuso in una salda cerchia di mura, robusti edifici e torrette. Il problema è: perché questa porta è poi diventata mitica per la comunità, anzi oggi potremmo meglio dire (appunto perché scomparsa) monumento-simbolo di un’intera collettività? Ancora più di un altro monumento importante, come la chiesa di San Giuseppe (già di S. Maria del monastero di Santo Salvo)? Non a caso la foto della vecchia Porta è quella più conosciuta e più diffusa in assoluto del paese, quella che ha fatto il giro del mondo. Sappiamo che la Porta nell’antichità, aveva – oltre alla funzione di luogo di entrata ed uscita dall’abitato, di tramite con la campagna e con i centri viciniori – l’altra, importantissima, di difendere, di custodire l’intera comunità dalle insidie di nemici, briganti e ladri. Perciò era considerata sacra, protetta da divinità e accostata alla porta della casa: come questa custodiva la famiglia quella tutelava la collettività. Indubbiamente fino alla seconda metà del Settecento anche la Porte de la Terre ha svolto a San Salvo questa importante funzione; dopodiché la crescita della popolazione e i mutamenti economici e socio-politici hanno creato le premesse per l’espansione dell’abitato fuori le mura. In quel momento la Porte de la Terre poté condizionare l’impostazione dell’attuale corso Garibaldi e del nuovo quartiere occidentale, ma perdendo la sua originale funzione. Tuttavia il largo davanti alla porta, chiamato “La piazze”, assunse allora una nuova funzione: quella di tramite tra la città vecchia e la città nuova, tanto che la Porta è divenuta muta testimone di tutti i più importanti avvenimenti cittadini: dall’arrivo dell’urna di San Vitale, nel dicembre 1745, all’impiccagione di briganti agli inizi dell’Ottocento e forse anche dopo l’unità d’Italia; dal passaggio di Garibaldi, nel 1849, agli altri avvenimenti risorgimentali. Come evidenziato da Angelo Pagano nel suo testo, nei pressi della Porte de la Terre si svolgeva il mercato estivo mattutino dei braccianti mietitori, si ritrovavano i giovani con gli amici e compagni di avventura, si raccoglievano i crocchi di uomini a spettegolare, si tenevano i comizi ecc. Fino alla II guerra mondiale e agli anni Cinquanta del Novecento questo luogo è sempre stato al centro delle più importanti vicende cittadine (gli scioperi, la cacciata di Spataro nel 1947) oltre che del vivere e delle attività che possiamo definire quotidiane. Poi tutto è cambiato, e si è giunti alla infelice decisione della DEMOLIZIONE del 1968 e avvenimenti successivi. E qui giungono le ultime battute del testo di Angelo Pagano: chi ha voluto la distruzione della Porta? Quale può essere stata la responsabilità della collettività nel non aver impedito che questo accadesse?. In altra occasione ne abbiamo accennato, e tra noi c’è effettivamente un certo disaccordo sul piano delle rispettive “responsabilità”. Perché se è vero che l’abbattimento è stato voluto da Vitale Artese (mi ricordo di “Pasqualicce” Cilli, che non voleva proprio abbandonare la sua casa destinata alla demolizione, la casa degli avi, la casa sua fin dalla nascita...) è altrettanto vero che non ci sono state forti resistenze tra la popolazione (ubriacata dal mito del “progresso”) e che anzi solo dopo qualcuno ha cominciato a dire che “arivoleva” la Porte de la Terre (cosa ovviamente impossibile). Ora non si tratta di giudicare né di condannare i politici del tempo ma soltanto di comprendere un’altra cosa: perché a San Salvo si demolisce da oltre un secolo e con scarsa o nessuna opposizione, tranne il tardivo rimpianto nostalgico che non cambia nulla? Angelo Pagano lo dice espressamente nella premessa: “Occorre scuotere chi legge a non rimpiangere il passato ma vivere il presente per crearsi un futuro”. Dunque non vogliamo fare i giudici ma semplicemente ricordare che: – nel 1929-30 (in regime fascista) è stato abbattuto l’ex convento di Santo Salvo, poi palazzo abbadiale, per la realizzazione dell’edificio scolastico (ora adibito ad uffici comunali); – che nel 1960-61 è stato abbattuto l’antico campanile romanico-gotico di San Giuseppe e prima e dopo tra il 1950 e il 1980 molti dei palazzi più significativi (dei Fabrizio, dei Cirese, degli Artese, dei Ciavatta ecc.), in piazza o sui corsi Umberto I e Garibaldi; – che le demolizioni nel centro storico sono proseguite fino ad oggi e proseguono tuttavia (sui muraglioni, intorno alla Chiesa e nei vicoli tra corso Garibaldi e via Savoia) sempre con le stesse ragioni: “diradamento sanitario”, “lesioni alle strutture”, “necessità di creare spazi al paese in crescita”, “ampliamento di piazza San Vitale “ e così via. Penso che in nessun paese del circondario si è demolito come a San Salvo negli ultimi 80 anni. Ha esclamato Vitale Del Casale qualche tempo fa osservando una foto di corso Umberto I del 1930 circa: “Ma avevamo anche noi la nostra piccola San Gimignano!”. Un giudizio che sarà un poco esagerato ma che appare sostanzialmente veritiero: peccato che ce ne siamo accorti nel 2003! E che per credere allo spessore storico del nostro paese abbiamo dovuto attendere gli scavi archeologici del 2002! Finalmente oggi possiamo dire che tanto la Porte de la Terre quanto la Chiesa di San Giuseppe poggiano su fondazioni romane e medievali: ed è questo un altro elemento che avvalora tali monumenti, che dà loro radici profonde (attraverso la stratificazione delle civiltà che si sono susseguite per millenni su questo suolo) e che ne spiega il valore simbolico. E’ però da risolvere un’altra questione, quella che ponevo all’inizio: il motivo per cui non è la Chiesa di San Giuseppe ma piuttosto la Porte de la Terre a rimanere – nell’immaginario collettivo – il simbolo principale di San Salvo, simbolo appunto di un paese, di una storia, di una identità. In questo ci può aiutare Angelo Pagano, anzi diventa decisivo quando nel suo testo ci presenta un’umanità che si può dire essenziale, tutta tesa a sopravvivere, a tirare a campare e magari, se possibile, a tentare di fare, anche con un matrimonio combinato, un piccolo passo avanti. Un mondo verghiano, si potrebbe dire, quantunque non del tutto rassegnato. Bene, se la Porte de la Terre rappresenta questo mondo, semplice quasi primitivo ma tutto attaccato alla materialità, alla problematicità della vita quotidiana, allora vuol dire che simboleggia questa cultura, la cultura “salvanese” nei suoi ruvidi elementi essenziali e costitutivi (l’attaccamento ai valori del lavoro, della casa e della famiglia, la laicità del modo di pensare, l’ironia che non manca nei momenti difficili e che anzi si rivela essenziale nelle situazioni di miseria o di delusione). Venendo agli aspetti linguistici e ideologici al testo, mi pare di poter dire che il dialetto usato nella rappresentazione è in genere assai più fedele al reale di quello usato dai poeti dialettali. Questi ultimi si appoggiano (in un certo senso) ai classici dell’area di Lanciano-Orsogna-Chieti: e hanno prodotto una lingua che in sostanza non corrisponde esattamente al nostro dialetto, un dialetto di matrice frentana costiera. E’ frequente, ad esempio, non solo in questo ma anche in altri testi teatrali di Pagano, la dittongazione delle sillabe accentate: fatto che costituisce un passo in avanti nella costruzione di una lingua letteraria dialettale salvanese o sansalvese che dir si voglia. Lasciando stare il problema del come trascrivere correttamente questa lingua con il nostro alfabeto (cosa non risolta concordemente finora mi pare, tant’è vero che ognuno si comporta a suo modo: es. sulla scrittura della “e” finale muta, l’accento grafico tonico, l’uso della dieresi ecc.) aggiungerei però che il dialetto usato da Angelo Pagano e dalla Compagnia teatrale Renato Bevilacqua si piega un poco alle esigenze della scena, cioè del teatro. Ad esempio, “So capito!”, “Al Pirato!” oppure semplicemente “Sandi Salvo”, “La Porte di la Terre” appaiono soluzioni tipicamente teatrali, comunque condizionate dalla necessità di caricare le ultime parole o quelle chiave del testo di icasticità, di tonalità, di musicalità (la canzone di Leone Balduzzi fa: “La Porte di la Terre...”). E questa soluzione, mi permetta Angelo Pagano, è una soluzione che a mio parere è frutto di una riflessione sulla lingua di tutta la compagnia del Teatro Sperimentale (oggi Renato Bevilacqua) e in particolare di quello che considero l’attore più rappresentativo (non me ne vogliano gli altri), Felice Tomeo, che di suo aggiunge la carica ironica in parole di questo tipo, in modo tale che pur avendo la pretesa di essere italiane o di avvicinarsi all’italiano non vi possono effettivamente riuscire. Felice Tomeo è d’altronde attore nella vita, prima che sul palco, nella sua bottega dove commenta con la solita verve e vivacità gli avvenimenti e le situazioni del giorno e dove riesce abilmente a mescolare finzione e realtà. Egli si candida ad essere un personaggio alla maniera di altri personaggi ricordati nel testo (Mastro Luigi il Sarto (detto “Furbe”), Biondo, Zì Domenico ecc.) quei personaggi che emergono tra gli altri soprattutto per la capacità di smontare anche le situazioni più imbarazzanti o tragiche. E concludo proprio con una domanda sul realismo o meno del teatro di Angelo Pagano e della sua Compagnia: cioè se quello che viene raccontato è del tutto vero oppure no; o se lo è fino a che punto è reale o frutto del loro modo di vedere la realtà. Io penso che ci sia dell’uno e dell’altro; e che comunque in definitiva sia meglio lasciare la risposta ai diretti interessati.
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