Partecipa a SanSalvo.net

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

La chiave smarrita del mondo delle nostre architetture rurali

Masserie, mezzadrie, famiglie patriarcali, fatiche, semine.. una matassa di lana ritorta, ogni raccolto diviso due

Condividi su:

Prevalgono le ortiche, ma non mancano rovi e erbacce di ogni genere. Quello però che più fa soffrire sono le strutture cadenti: specialmente il tetto che, con il focolare, sono l’icona non solo della casa intesa in senso lato, ma di ogni vita e affetto che nasce, vive e si spegne in una casa. Ma si spengono mai gli affetti vissuti in una casa?
Noi crediamo di no, il fatto stesso che ci spinge a cercare in situazioni di reale difficoltà fisica, ma anche di pericolo: cani randagi, terreni sdrucciolevoli, recinti improvvisi, spesso fango, timore dei contadini che potrebbero scambiarci per ladri... anche di tegole, è segno che si è spinti verso cose che sembrano non esistere più, ma in realtà, sono appena dietro 'la siepe dei nostri ricordi' e lanciano misteriosi SOS al nostro io cosciente che tracimano il presente reale per condurci all’interno di un mondo - ancor più reale - che sentiamo appartenerci profondamente, sono le nostre: masserie, case coloniche, poderi, cascine, casali, casolari, masi - regione che vai... nome che trovi - le case dove, molti di noi sono nati, vissuti, cresciuti, ma non si crede possibile che, alcuno - vuoi per parentela o per amicizia - non vi sia entrato almeno una volta o si sia seduto a mensa con la famiglia che lì viveva, anche se abitava in un contesto urbano.

Da poveri o da benestanti, le nostre masserie hanno avuto non solo una funzione storica, sociale e produttiva per la generazione della seconda metà del secolo scorso e parzialmente per quella seguente, ma sono state anche scuole di affetti e solidarietà, fucine morali e officine di autosufficienza. Dai loro focolari e dai loro campi è stata formata una generazione capace di affrontare la vita senza piagnistei, gente che ha saputo gioire con poco e mettersi in gioco moltissimo per la propria sopravvivenza e il proprio futuro.

Case che emanano non solo un vissuto, ma un vissuto che profuma di sacralità, perché sì, il lavoro è sacro per la vita e la vita per il lavoro, come lo è un nucleo familiare, ancor più se numeroso e coeso. Mentre ci si avvicina a qualcuna di esse del tutto abbandonata, all’improvviso si ode una vecchia imposta che il vento fa battere. Un bambino penserebbe ai fantasmi, un adulto che ama queste case, vi legge un 'segno': un invito alla rinascita, a pulire la polvere del tempo, a stendere un bucato al sole.
Tra la contrada Stazione e la Padula, di masserie ve ne sono diverse: abitate ancora produttive, totalmente abbandonate, ristrutturate e/o mantenute decorosamente in vita per affetto e momenti di riposo.

Quella più visibile e attraente - anche per il contesto paesaggistico/bucolico - è senza dubbio la masseria Nasci. Un complesso che, definire tutto rurale non si può, perché presenta elementi architettonici di pregio e molto curati, ma neppure è possibile pensare essere completamente aliena dal contesto agricolo, perché vi sono ancora ambienti adibiti a stalle. Sorge a circa a duecento metri di distanza dalla strada - su una bella terrazza di terreno che si affaccia sul mare - ed è ben visibile, tra una pianta e l’altra di Pinus Italicus 'carichi di stagioni', che fiancheggiano la strada che congiunge la Piane Sant’Angelo alla via Grasceta. Anche da una certa distanza, si percepisce che, oltre gli alberi e dopo il viale, occhieggia un edificio di una certa complessità che esprime tutta la sua grazia. Avvicinandosi ancora fino alle mura esterne, subito si presenta allo sguardo un elemento architettonico - anzi due - di una forma tanto misteriosa quanto affascinante: una sorta di prisma tagliato in due, di cui la parte superiore è completamente liscia e, quella inferiore, decorata da un serie di mattoncini che danno l’impressione ottica di un bugnato degradante e simmetrico che chiude con una sola pietra.
Colpisce la loro architettonica essenzialità e armonia, come le nostre basiliche Romaniche-Abruzzesi del Basso Medioevo.

Architetture tutte che invitano alla contemplazione, anzi ad una interrogazione all’invisibile che celano. L’impressione, però, è più quella di essere guardati che quella di guardare. Uno di quei misteri in cui gli artisti del passato erano maestri. I versetti biblici poi, fanno sentire il loro eco nell’anima poiché così mi ha detto il Signore: «Va’, metti una sentinella che annunzi quanto vede» (cfr Is 21,6).
Un'analisi attenta ed una ricerca approfondita ci ha portato alla conclusione che trattasi di due garitte in pietra. Una sorta di 'piccoli bastioni' posti a difesa della proprietà. Le feritoie non sono visibili, perché sono state cicatrizzate dal restauro in corso. L’epoca di nascita del complesso ha origini ignote anche all’attuale proprietaria sig.ra Francesca D’Aloisio (erede Nasci), che afferma con sicurezza essere stata acquistata dai suoi antenati tra il 1700 e il 1750. Considerato che – oltre le garitte – vi era un antica torretta ora crollata, facilmente li si associa ai tanti Briganti che terrorizzarono i nostri borghi per circa un decennio dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia nel 1861. Le garitte dunque - torretta caduta - nacquero a mero scopo difensivo, ma, talvolta, come in questo caso, la loro singolare bellezza le ha trasformate in elementi architettonici pienamente integrati nel complesso abitativo a cui conferiscono un tocco di artistica originalità. Esse furono opera di un ignoto maestro che ignorava di far felice non solo il committente, ma anche i posteri.

La ristrutturazione in corso non permette di avvicinarsi più di tanto a tutto il complesso, ma le due garitte sono state veramente ben restaurate e, fotografandole, è impossibile non ammirarle per tutto il tempo che lo spirito chiede per essere pago. Un mistero – anche per la Sig.ra D’Aloisio è il bell’arco a ogiva di uno porzione di muro a pianterreno che poteva – a suo avviso – essere una parte di parete di una 'chiesa tratturale' annessa o indipendente dalla Masseria. La storia del complesso è complicata perché i rifacimenti sono inquantificabili e non esiste una documentazione storica. I mezzadri la abitarono fino all’inizio degli anni '70.

La masseria Centorame, invece, sorge lungo la Statale 16, poco dopo la rotonda di via A.Doria, anche se a debita distanza del rumore del traffico. Non ha aspetti artistici, è un architettura tipicamente rurale che rispecchia in pieno la vita di coloro che l’hanno vissuta oltre che abitata. La famiglia Centorame: Donato, Michele, con suo nipote Nicola e famiglie, per un totale di ben 9 persone arrivarono qui nell’anno 1973. Erano stati sfrattati nel giro di un paio di giorni da un privato che aveva acquistato casa e terreno dalla SIV per farne un hotel; in quel posto, infatti, doveva sorgere il 'Villaggio SIV' che nacque poi sulla Collinare San Salvo-Vasto. Persone e bestie da allevamento dunque, gatto compreso, furono costretti a rifugiarsi alla svelta in una casa semi-diroccata lungo via Magellano. Fu solo dopo qualche tempo che ottennero la mezzadria in questa casa, un edificio rurale che era stato pensato e realizzato in funzione del vivere dei mezzadri: dal loro pasto alle loro fatiche, dal loro riposo notturno agli attrezzi da lavoro. Qui i Centorame restarono per mezzo secolo.

Oggidì, uno sguardo superficiale la definirebbe una casa 'scomoda' per vivere; scoprendola un po’ invece, si resta compiaciuti delle sue infinite e sorprendenti risorse di abitabilità e agi. Iniziare a percorrere il viale erboso che ad essa conduce è molto più che una curiosità intellettuale o una ricerca di semplici suggestioni, ma l’emozione del ritorno a casa alla casa di mamma e papà. Quella casa da dove siamo usciti pochi o tanti anni fa e che resterà per sempre quella diletta. Forse è – per certi aspetti – la casa della Parabola del Padre Misericordioso che ci attende tutti guardando alla finestra (cfr Lc 15, 11-32) per un ritorno di pentimento e perdono nei confronti di questo tipo di vita. Qui tutto è rimasto com’era: dal focolare agli attrezzi agricoli, dal torchio ai pavimenti, dal pozzo al canestro, dalla bascula al crivello. Nulla è stato spostato, toccato, rimosso. La vita, il lavoro, gli affetti sono ancora tutti lì, radunati intorno al focolare alle immagini dei defunti allineate sul comò, nei quadri della Madonna o sul bordo del pozzo in attesa che il cocomero, in mancanza del frigorifero diventi fresco. Il segreto di questo stato di conservazione è semplicissimo: una custodia/piccola/manutenzione degli ex mezzadri per conto dell’attuale proprietario. Nell’edificio, non ci sono stati interventi strutturali ma, soltanto, una visita quotidiana di affetto e arieggiatura più che di controllo.

La signora Annina, vedova Centorame, narra con incantevole semplicità, la vita della masseria. Il nucleo lavorativo aveva una sua 'gerarchia' il cui vertice era sempre maschile. Gli uomini più anziani assegnavano il lavoro più adatto a ognuno, le donne ubbidivano senza lamenti o frustrazioni, pur rimettendoci di più perché, dopo il lavoro nei campi, vi erano quelli domestici e la cura dei figli, da cui loro, erano per lo più esentati. Stima, aiuto e rispetto però, non mancavano mai tra loro, pur nella durezza del lavoro. Anche Donato Centorame il più giovane della famiglia, concorda con la mamma che l’atmosfera di grande armonia che regnava tra tutti i membri dei tre nuclei familiari era reale. Tutti erano consapevoli che l’acqua andava tirata dal pozzo in continuazione per gli usi domestici, mentre, per quella potabile, bisognava raggiungere la fontanella pubblica nei pressi della Chiesetta. Quando si ammazzava il maiale era festa grande e raduno di amici e parenti. Ogni raccolto li vedeva festeggiare, ogni pena era condivisa e, una bicchierata di buon vino, offerta sempre ai tanti passanti. Soldi non ce n’erano e, come tutta la loro generazione, amano ripetere «si era persa la “semente”, ma fame non si soffriva perché, con 12 capi bovini più gli animali da cortile, l’orto, il grano, l’olio, la farina e il vino prodotto da loro... no, non c’era!» La passeggiata della domenica delle donne e dei bambini era la messa nella vicina Chiesetta, una scappata al prossimo mare ma, ancor più, vicino al Trigno. A volte, i pionieri Michele e Nicola, si associavano ad altri pescatori per tentare la fortuna di una buona retata di pesce.
Alla domanda sul bello e sul meno bello della mezzadria risponde Donato: «ci ha dato la possibilità di nutrirci e vivere, ma era penoso dividere - come da contratto - anche le uova per due».
Un 'piccolo mondo antico' al cui racconto si resta incantati, consci però che, di esso, abbiamo smarrito la chiave.

In contrada Stazione vi sono altre masserie: le disabitate e cadenti come quella dei Bottari lungo la Vecchia Trignina, quella dei Rucci e dei Di Bartolomeo nel pieno della Padula e altre ancora produttive ed efficienti.
Un caso a se rappresenta la masseria Zinni che, all’agricoltura tradizionale tutta, ha associato dei metodi di distribuzione all’avanguardia, sfruttando anche i mezzi mediatici e valide iniziative atte a valorizzare e far conoscere i loro prodotti e promuovendo anche eventi e conferenze a carattere agricolo ad alto livello, che hanno permesso a molti di essere informati della bontà dei loro prodotti e uno stile di lavoro capace di camminare al passo con i tempi.

Centorame, Zinni, Rucci, Cacciagrano, Tumini, D’andreamatteo, Di Giuliano, Grassi, D’Aurizio, famiglie dal nome antico e dense di storia di quest’angolo di mondo, gente grandiosa nella propria semplicità, persone dai valori solidi, che nessuna 'società liquida' è riuscita a diluire. Una cattedrale di persone, che conoscono la vita, il lavoro, la lotta per la sopravvivenza e l’autosufficienza, all’epoca in cui il bancomat o il paypal erano costituiti da: grano, olio, uova, formaggio, in cambio di: un taglio di stoffa a quadretti, una matassa di lana ritorta da lavorare ai ferri per le maglie intime e poco altro.

Gente il cui ritmo di vita era scandito dalle stagioni, dal lavoro nei campi, i pasti, il fuoco acceso, lo spegnersi e l’accendersi dei lumi: a olio, ad acetilene e lanterne, fino al miracolo della luce elettrica. Operai che, per cartellino da timbrare, hanno avuto il buio che precede l’aurora e quello che segue il tramonto.
Persone per cui bisognerebbe istituire una Cattedra di 'Pane e sudore della fronte', una 'docenza' antica tutta da riscoprire, quella che potrebbe Costruire un/una giovane con il classico 110 e lode: summa cum laude.
Uomini e donne che sembrano uscite dalle pagine di un Vangelo vissuto, testimoni credibili della fede in Dio e nella vita.

Nota Bene: per le informazioni tutte, si ringraziano il sig. Donato Centorame e la mamma signora Annina Ciccotosto, la signora Francesca D’Aloisio erede della famiglia Nasci, la signora Elena Fiore, la signora Rita Di Giuliano, lo storico professor Giovannino Artese e il geometra Remo Colanzi, capo servizio dell’ufficio Urbanistica del Comune di San Salvo per la sua competenza e sensibilità.

Condividi su:

Seguici su Facebook