Partecipa a SanSalvo.net

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

Educare è un’arte tutt’altro che agevole da esercitare

"Il vero problema non è il perverso protagonismo dei ragazzi, ma la colpevole assenza degli adulti"

Condividi su:

Davanti ai fenomeni sempre più preoccupanti di violenza che sono registrati nel mondo giovanile, è naturale che ci si interroghi sulla capacità educativa delle grandi istituzioni che presiedevano tradizionalmente alla formazione delle nuove generazioni, la famiglia, la scuola e la chiesa. A questo proposito è stato notato che il vero problema non è il perverso protagonismo dei ragazzi, ma la colpevole assenza degli adulti.

Consideriamo: si dice spesso che tutto deve ruotare attorno al bambino, al ragazzo. Ma a quale bambino, o quale ragazzo? A quello che deve essere educato, anche attraverso dei “no”, all’incontro con la realtà e con gli altri, oppure a quello che, perché “utente”, va semplicemente accontentato, in base al principio che “il cliente ha sempre ragione?”. Su questa domanda si gioca il senso della convergenza educativa di tutti quelli che hanno a cuore i ragazzi e i giovani. Si tratta, perciò, di essere alleati nel formare personalità mature, oppure complici, come spesso purtroppo accade, con un permissivismo deleterio che genera, negli adolescenti soprattutto, sola violenza. Già Temistocle faceva notare: “Il ragazzo è la persona più potente tra i Greci. Infatti i Greci sono comandati dagli Ateniesi, gli Ateniesi sono comandati da me, io dalla madre di mio figlio e la madre dal ragazzo stesso”. Ora, prendendo quasi alla lettera le parole di Temistocle, dobbiamo riconoscere che nel ristretto perimetro della famiglia si consumano spesso atti estremi. Da un lato, c’è l’infamia della violenza sui minori con tutte le tragiche conseguenze che essa comporta su queste creature. Dall’altro lato, c’è l’eccesso della debolezza che è talora frutto della pigrizia e della superficialità perché educare, è un’arte tutt’altro che agevole da esercitare. Il bambino diventa, così, un piccolo prepotente cui tutto si concede per quieto vivere o per amore erroneo. Egli condiziona i ritmi famigliari, i suoi desideri sono ordini, la sua natura cresce senza vincoli e controlli. Il risultato è facile da intuire e molte sofferenze successive dei genitori, anche se non sempre, hanno la loro radice velenosa proprio nell’assenza di una giusta, calma ma esigente educazione dei figli.

Di là dai diversi ambienti in cui la personalità del ragazzo si forma, essa è una e solo da uno sguardo d’insieme, che ne colga le diverse sfaccettature, diventa possibile individuarne anche le caratteristiche, le esigenze, le potenzialità, e dare loro coerentemente una risposta adeguata. Bisogna tenere presente, però che un’impresa educativa suppone valori condivisi da parte di tutti gli educatori. Determinazione, quindi, in alcuni valori condivisi e impegno nel testimoniarli e trasmetterli, sia in casa che fuori. Se non si lavora in questa direzione, ci ritroviamo sempre più giovani senza ideali. Bisogna tornare a educare i ragazzi a coltivare sogni, a fare progetti, a pensare in grande.

Lodiamo pure i giovani, esaltiamo l’adolescenza, adoriamo estatici la puerizia. Ma ricordiamoci anche che gli uomini i quali hanno rinnovato il mondo sono sempre usciti da scuole dove i capricci e gli impeti della giovinezza erano corretti e frenati e dove i ragazzi si davano per modello gli uomini e le loro più stabili e provate virtù. La vite è sempre appoggiata all’olmo, non l’olmo alla vite” (Ugo Ometti). Una sana e sobria lezione di saggezza educativa. Troppo spesso, infatti, ai nostri giorni, per evitare turbe o repressioni, si è inclini a concedere tutto ai ragazzi e ai giovani, lasciandoli così nella loro “imperfezione”, correndo il rischio di avere eterni bambini, coccolati e capricciosi. È per questa via che si creano persone immature e tutt’altro che grate a chi ha concesso a loro tutto. Anche il giovane, infatti, riesce a capire, di là dal suo spontaneo egoismo, che ciò di cui ha realmente bisogno è altro e che questo “altro” è da conquistare con fatica. San Giovanni Paolo II non ha mai addolcito la provocazione e la severità dell’annuncio evangelico e le esigenze che i veri valori comportano. L’olmo solido e sicuro è necessario alla vite flessibile perché essa dia frutto.

Ci guardiamo intorno, in questa società violenta, egocentrica, arrivista, e di fronte a tanti episodi di malcostume spesso ci domandiamo: perché succedono tali cose? Questi interrogativi ci portano a precise responsabilità della scuola, della famiglia, dei mass media, ecc. insegnanti incapaci di formare le coscienze e di allenare la volontà; genitori che non preparano i figli al rispetto del prossimo, alla necessità del sacrificio e della rinuncia, che non offrono un modello di onestà professionale e di amore coniugale all’interno della famiglia; una società egoistica che non concede riferimenti per abbracciare lo spirito di condivisione, assaporare la bellezza della collaborazione. Come può un giovane trovare il senso della vita, se queste sono le premesse, il terreno sul quale ci muoviamo? Quando un giovane si presentò a Gesù e gli chiese che cosa fare per ottenere la vita eterna, Gesù “fissando lo sguardo sopra di lui, lo amò” (Mc 10,21). Credo che il segreto sia tutto in quel “lo amò”: certo, quel giovane se ne andò triste (cfr Mc 10,22) perché non ha riconosciuto quell’amore, perché non ha ritenuto efficace la relazione proposta da Gesù – va, vendi, dallo e vieni e seguimi -. A volte i giovani non permettono al Signore di entrare nei loro cuori e quindi non riescono a scoprire il “senso della vita”. Ma è ancor peggiore quando sono gli adulti a impedire loro l’ascolto e quindi riconoscere il Signore perché con la contro testimonianza non guidano alla misura alta della vita e verso la conoscenza e la formazione progressiva alla capacità di decisione.

L’emergenza educativa oggi è veramente quella più seria!

Amore, amicizia, costumi e tradizioni non si imparano a scuola, ma in famiglia. Il cuore delle madri è il primo libro dei figli! Le cronache di ogni giorno, purtroppo, ci presentano un quadro abbastanza desolante e preoccupante della famiglia nella nostra società. E le tante concezioni che molti cercano di affermare per stravolgere e distruggere il concetto di famiglia non possono che impensierirci e invitarci a difendere e promuovere la famiglia come Dio l’ha pensata e creata. Quale differenza con gli esempi che ci presenta la Parola di Dio! Certo, anche la famiglia di Gesù ha avuto i suoi problemi, le sue preoccupazioni, le sue difficoltà. Di sicuro, però, le nostre famiglie e tutta la società ci guadagnerebbero, se si sforzassero di imitarne le virtù e gli esempi. Le sole gioie pure e non venate di tristezza di cui l’uomo può godere sulla terra sono quelle della famiglia. Ma nella famiglia, in più si osservano le virtù del rispetto, dell’educazione, del dialogo, dell’amore sincero, della pazienza, della comprensione, del silenzio, dell’aiuto vicendevole. “La famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa, è veramente il fondamento della società” (GS, 52).

O si impara l’educazione in casa propria o il mondo la insegna con la frustra e ci si può far male” (Franci Scott Fitzgerald). Se non si plasma il carattere nei primi anni di vita, attraverso una sapiente opera di cesello spirituale, si entra nel mondo senza la vera attrezzatura per vivere. E cominciano, allora, le delusioni, le ferite e le sconfitte. Ai nostri giorni, forse perché sono tanti quelli privi di educazione, sembra talora che proprio costoro siano i più fortunati. Entrano in scena con arroganza e sono rispettati; prevaricano e nessuno obietta; si mostrano volgari e sono applauditi. Ebbene, anche se l’andazzo è questo, non lasciamoci condurre da questa deriva: c’è, infatti, una dignità personale che vale infinitamente di più di un successo momentaneo e banale.

Giovani senza ideali!

Ogni anno si assiste alla sottrazione di un mese scolastico. Compiacenti la maggior parte dei genitori, i quali sono lieti che i loro figli facciano “esperienza”. Di che? Non si sa! Quello che non si capisce, dove sta il valore. Sembra che molti, fra ragazzi e genitori, temano l’impegno, la serietà e, in questi tempi di esagerato confronto, l’insuccesso. Essi sono lo specchio degli adulti, meno altruisti, sensibili, coraggiosi dei loro figli. Se un figlio crede in poco o in nulla, se non ha valori forti di riferimento, la colpa non è solamente sua o delle compagnie che frequenta, ma anche del clima che respira in famiglia. I giovani hanno la loro responsabilità, ma ne hanno anche gli adulti. Bisogna tornare a educare i ragazzi a coltivare sogni, a fare progetti, a pensare in grande.

La libertà non consiste nel fare ciò che si vuole, ma nel poter fare ciò che si deve fare” (Charles Louis Secondat barone di La Brède e Monteasquieu). La libertà non è assenza di norme, di principi, di mete, non è indifferenza acritica e libertinismo. Essa è, invece, una scelta convinta e coerente per “ciò che si deve volere” e questo bene da volere si compie non per obbligo ma per un imperativo morale interiore profondo. Ora, se la vera libertà è questa, è ovvio che diventa necessaria una rigorosa educazione per saper praticare la libertà. Essa non è un contenitore vuoto ma un disegno da compiere, un impegno severo eppur gioioso da attuare. Aveva perciò ragione il beato Paolo VI quando affermava che “libero veramente è chi è capace di donarsi totalmente. Educare alla libertà significa educare all’amore”.

La nostra società è pronta a stracciarsi le vesti e a invocare fulmini e morte quando assiste a delitti innominabili per atrocità. Ma è del tutto restia, in nome di un’illusoria e fatua libertà, a controllare la passione, a educare il bambino, il ragazzo, il giovane e anche l’adulto alla battaglia della legge morale, a difendere i principi etici. Per dirla con una colorita battuta della sapienza romana, “si badi a non ottenere con l’eccessiva dolcezza del miele la lunga amarezza della bile” (Apuleio). Perciò, “Se guardi la tua anima come se fosse un gioiello prezioso, se desideri virtù, controlla la passione come il morso controlla l’impeto del cavallo. Che il giudizio sia il tuo elmo, la giustizia la tua cintura e la tua mente come una lancia che scaglia colpi contro le difficoltà. Sarà la battaglia della legge, con la sapienza e le sue regole a difendere i tuoi principi” (Giuda il Levita). “La libertà consiste nel poter fare tutto quello che uno ritiene nell’ambito della legge e dei valori etici senza danneggiare la libertà degli altri” (Nicola Matteucci). Oggi c’è un equivoco fondamentale. Si confonde la libertà con il diritto di ciascuno di seguire i propri piaceri. Da questo derivano molti fenomeni dei nostri giorni incentrati sulla rivendicazione di poter seguire unicamente il proprio pensiero e i propri comportamenti. Non si può cambiare a proprio piacimento la definizione di libertà. Oggi c’é una dittatura della maggioranza. Dittatura della maggioranza dell’opinione. In occasione del Giubileo dei ragazzi, lo scorso 24 aprile a Roma, papa Francesco ha affermato: “Molti vi diranno che essere liberi significa fare quello che si vuole. Ma qui bisogna saper dire dei no. Se tu non sai dire di no, non sei libero. Libero è chi sa dire sì e sa dire no. La libertà non è poter sempre fare quello che mi va: questo rende chiusi, distanti, impedisce di essere amici aperti e sinceri; non è vero che quando io sto bene tutto va bene. No, non è vero. La libertà, invece, è il dono di poter scegliere il bene: questa è libertà”.

 La cronaca ci mostra quotidianamente fenomeni di bullismo, video girati da studenti nelle scuole che riprendono atti sessuali, volgarità, degenerazione. Ora, tutti fanno finta di cadere dalle nuvole, ma questo è esattamente lo specchio della nostra società, il triste risultato dell’onda lunga della “rivoluzione culturale”, del “vietato vietare” sessantottino e di chi ha lasciato fare. La difficile via d’uscita a questo punto è una sola: imporre l’ordine, le regole, pretendere che la scuola, e in genere ogni settore della vita pubblica, puntino non alla quantità ma alla qualità. Non è giusto che tutti abbiano tutto; il tutto bisogna conquistarselo; non deve esistere il “diritto allo studio” ma il dovere di studiare. La nostra società, dove ci sono solo diritti e nessun dovere, non riesce più a esprimere genio, creatività, innovazione. Sarà difficile cambiare! Anche perché i chiacchieroni che nel ’68 facevano la lotta studentesca, pretendendo un mondo senza regole, oggi occupano tutti posti di potere. E se ne infischiano.

La correzione senza amore è sterile.           

La ribellione nasce spesso non per mancanza di cure, di benessere, di doni, ma per assenza di vicinanza, di ascolto, di affetto profondo. I ragazzi ai nostri giorni sono coperti di cose, di atti, di premure materiali, di attenzione alla salute e ai loro desideri immediati. Quanto è raro, invece, che un genitore sappia dialogare col figlio, essere in grado di stringerlo al petto, così da far sbocciare la confidenza. Educare e guidare fanno parte di un dono prezioso da implorare a Dio, sono un’arte difficile. Certe volte l’eccesso di concessioni esteriori è segno dell’incapacità del genitore a stabilire un legame più autentico e profondo col figlio. Si preferisce accontentarlo più che capirlo. Si preferisce vederlo soddisfatto e sazio esteriormente più che cogliere i suoi interrogativi e le sue insoddisfazioni.

Esiste, poi, un’auto emarginazione strisciante nella società odierna: il non fare e il non dire come tutti. Se ti vesti decentemente ma non all’ultima moda; se non fai i week-end ma trascorri il fine settimana in famiglia, se hai l’auto ma non l’ultimo modello, se vai in pizzeria ma raramente e non tutte le settimane, se leggi sessanta e più libri l’anno ma neppure una rivista patinata, se appena hai del tempo libero vai a visitare un museo e non al cinema…ecco sei “out”, come si usa dire oggi. Insomma, cercare di vivere testimoniando la semplicità e la disponibilità è considerata inverosimile in questa società del consumo. La nostra epoca è per definizione “epoca” dell’apparenza. O meglio della falsa apparenza. Il sistema del consumismo di massa ha creato, proprio perché “di massa”, una cultura della convenzionalità, del formalismo, del gusto omologato e omologante. Ogni fase storica e ogni civiltà hanno avuto un proprio bagaglio di moda, di mode, di modi. Nel passato, tutto ciò che concerneva l’aspetto esteriore della persona – dall’abbigliamento al costume sociale, dall’etichetta agli stili di vita quotidiana, dagli usi alimentari a quelli igienici – connotava un complesso simbolismo di segni e di valori nei quali i vari gruppi sociali e culturali potevano riconoscersi e distinguersi: il mercante, la donna, il notabile, il dotto, il contadino aveva ognuno un proprio distintivo linguaggio “corporeo” che lo confermava nello specifico ruolo nella società. Oggi, per contro, tutti e ognuno – al di là del censo e della cultura di provenienza – mirano a uniformarsi alle regole dell’apparire “dettate” dal bombardamento capillare e continuo della pubblicità, ossia del mercato; tutti (anche e forse soprattutto coloro che non potrebbero permetterselo) tendono ad esibire i medesimi “status symbols”, i medesimi oggetti della ritualità consumistica (dal telefonino all’automobile di grido, dalla vacanza a la page al capo d’ultima moda fino all’elettrodomestico “cool”) illudendosi di far parte così, del medesimo ambiente sociale, cosa che è palesemente falsa e ingannevole, in quanto basata non sulla realtà ma su un suo surrogato e simulacro, ovvero la moda, che da strumento è divenuta fine. Resta sempre possibile una libertà di scelta, (una vita libera dal consumismo) un percorso originale e personalizzato verso un’esistenza spesa nel dono più che nel consumo, liberata dal conformismo, donata nell’ideale edificante di una gratuità che riempie di letizia vera, di soddisfazione non effimera.

I ragazzi cominciano con l’amare i genitori. Quando crescono, li giudicano e, qualche volta, li dimenticano” (Oscar Wilde). Nei tre verbi, amare – giudicare – dimenticare, c’è la triste storia di tanti genitori che approdano in malinconici e squallidi ricoveri per anziani, del tutto o quasi cancellati dalla mente dei loro figli. Potrebbe perciò aver ragione chi ha detto: “I grandi sbagli nel giudicare una persona li fanno i suoi genitori”. Ci sono, infatti, padri e madri disposti a giustificare, difendere, esaltare le loro creature di là da ogni evidenza e decenza. Certo, si comprende che il velo dell’amore non si può strappar via dagli occhi come un pizzo o un occhiale. Tuttavia non ci si deve accecare, anche perché per questa via si può perfino fare il male del proprio figlio. Cresciuto come un principino, idolatrato, vezzeggiato, esaudito nei suoi capricci, considerato come il bimbo più bello e più intelligente, quel figlio non solo diverrà un egoista e un prepotente quando crescerà, ma anche incapace di tessere rapporti nella società e si rivolterà, proprio contro quei genitori così ingenui, “giudicandoli e dimenticandoli”. I genitori non sono gli amici dei figli ma i loro educatori perché crescano nell’amore, nella giustizia, nella verità, nella maturità. Solo così saranno “padre” e “madre” e non semplici “genitori”, cioè procreatori di vita fisica. Ha detto qualcuno: “Se un ragazzo non ha odiato, almeno una volta, suo padre, vuol dire che quel padre è stato un genitore, ma non un padre”.

I nostri giorni, purtroppo, sono attraversati da una solitudine senza pari degli esseri umani. Anche all’interno della famiglia spesso avviene che tra genitori e figli non ci si conosca veramente. I padri seguono dettagliatamente le vicende della propria squadra di calcio o del proprio partito politico, e non sanno nulla di che cosa sogna, teme e spera l’anima dei figli. I giovani si inviano centinaia di messaggi senza senso con i cellulari e con i computer, e non hanno il tempo e la voglia di scambiare due parole con i genitori, o con i nonni. Nelle famiglie sempre meno si parlano di se stessi, dei propri problemi reali, ansie, felicità, attese, delusioni. La televisione, internet e ogni altra forma del busines dell’intrattenimento alzano mura ogni giorno più alte attorno all’isolamento esistenziale di ciascuno. Si conoscono le avventure, gli amori e i tradimenti dei divi della tv, e non si sa nulla di chi vive con noi. In questo scenario si assiste impotenti al diffondersi della perdita della voglia di vivere, la depressione.

 “Un padre può dare a suo figlio il naso e gli occhi, e magari l’intelligenza, ma non l’anima. Essa è nuova in ogni uomo” (Herman Hesse). Questa è una fine osservazione sul mistero racchiuso in ogni creatura umana, autentica e costante sorpresa che il Creatore offre alla storia. La tradizione giudaica afferma che il conio fa tutte le monete identiche; Dio, invece, applica a tutti gli uomini lo stesso stampo (la matura umana), eppure riesce a farli anche tutti originali e diversi. Il padre e la madre possono essere felici di trasmettere al loro figlio un’orma di se stessi: chi non ha mai vezzeggiato un genitore esaltando nel suo bambino le somiglianze fisionomiche? E a ragione. Ma c’è in ogni figlio una novità assoluta che dipende solo dall’infinita capacità di Dio. È per questo che i genitori devono essere pronti a rispettare la differenza che il figlio reca in sé, a non imporgli una vita a loro immagine o secondo i loro sogni, a far crescere quei tesori e a curare quei mali che egli porta in sé. La molteplicità l'ha voluta Dio ed è bellezza. Solo il tiranno vuole che tutti pensino, vivano e siano come lui.

Essere madre o padre è molto più che generare un figlio o una figlia. Partorire è un atto fisiologico che, però, nella persona umana esige un coinvolgimento di sentimenti, di impegni, di amore.

A un bambino regalerei le ali, ma lascerei che da solo imparasse a volare” (Gabriel Garcia Marquez). È questa una bella rappresentazione dell’educazione, missione e funzione dell’adulto acanto al piccolo, della presenza discreta ed efficace del genitore e del maestro o della guida religiosa. È necessario offrire al piccolo non solo cibo, vestiti e cure esterne; è indispensabile far crescere in lui il respiro della vita, aprirlo ai sogni, alla bellezza, all’infinito, all’amore. Sono queste le ali che devono sollevare la sua esistenza dal mero orizzonte fisiologico. Ma, dopo aver insegnato al piccolo le norme del volo, bisogna che egli stesso s’impegni, con le sue energie, la sua libertà, la sua coscienza a crescere e percorrere le vie della vita. Non si deve portare sempre in braccio rendendolo inerte, anche se non bisogna abbandonarlo nella solitudine assoluta. Soeren Kierkegaard, meditando sulla prova di Abramo nel sacrificio di Isacco, vedeva nel racconto biblico una parabola dell’esperienza di fede e la comparava a un uso orientale. La madre, quando deve staccare da sé il figlio perché viva come persona libera, si tinge di nero il seno così che il piccolo non vi si attacchi. Il piccolo crede che la madre lo rifiuti e, invece, quel momento è il segno più alto dell’amore vero, quello che genera un uomo libero.

La famiglia è una cosa così bella che anche Dio ha sentito il bisogno di averne una.

Possiamo dire che la nostra è, come quella di Nazaret, una santa famiglia? Vedete: è questione di amore e di fede. Giuseppe ha dovuto avere fede in Maria; ha dovuto credere in lei, anche se non era in grado di capire quello che avveniva in lei, e l’ha amata così com’era. Maria si è fidata dell’amore, della stima e del rispetto di Giuseppe. E si è affidata a lui. Giuseppe e Maria hanno avuto fede in quel loro Figlio, anche se non capivano il comportamento, le sue parole. E anche Gesù ha avuto fede nei suoi genitori: “Stava loro sottomesso”. Nelle nostre famiglie, si ha fede gli uni negli altri? Vedete: per amare ci vuole fede. Per superare tante delusioni, tante difficoltà, ci vuole fede reciproca, unione, comprensione, pazienza, dialogo. In famiglia ci si ama senza esitazioni, senza calcoli. Nel giorno del matrimonio avete fondato il vostro amore sulla fede, non perché lui era l’uomo straordinario, o lei la donna più bella del mondo. I figli sono nati dal vostro amore: non li avete scelti in un concorso di bellezza. I figli amano i genitori non perché sono senza difetti, o perché sono i genitori migliori del mondo, ma perché da loro hanno ricevuto il dono meraviglioso della vita. Vedete: quando si ama così, siamo le persone più felici della terra. È a questa fede e a questo amore che dobbiamo tornare, se vogliamo salvare la famiglia e la società. Mazzini diceva che “la famiglia è la patria del cuore”. Bisogna sempre chiedere a Dio che nel cuore delle nostre famiglie fiorisca le stesse virtù e lo stesso amore della famiglia di Nazaret, per la costruzione di una nuova civiltà dell’amore. Talvolta la famiglia è il luogo nel quale, più che in altri, manifestiamo le nostre insofferenze, assecondando la falsa idea che la confidenza con le persone induce a comportamenti aggressivi. In realtà, la famiglia, per essere il luogo nel quale cresciamo e impariamo, dovrebbe essere l’occasione più piena per la manifestazione della nostra vera possibilità; sicché se in famiglia non siamo capaci di vivere in concordia e secondo le regole dell’amore possiamo dubitare della nostra reale capacità di farlo altrove. Un secondo limite, che capita di verificare osservando la vita familiare, è dato dalla chiusura egoistica, con il conseguente disinteresse per le persone che non fanno parte della nostra famiglia, e così questa diventa la somma di diversi egoismi. Dobbiamo continuamente ripensare le nostre relazioni familiari e le relazioni di cui la nostra famiglia è capace all’esterno. Forse non riusciremo a riprodurre, se non in piccolissima parte, le caratteristiche della famiglia di Nazaret; abbiamo, tuttavia, il dovere di guardare ad essa come modello che può cambiare profondamente la qualità della nostra vita familiare. A mio giudizio, la famiglia di Nazaret è un modello che dà luce e forza ai genitori nello svolgere al meglio il loro compito peculiare e arduo verso i figli. Compito che si può riassumere nell’essere anzitutto testimoni con i fatti e poi maestri con gli insegnamenti, sì da modellare una generazione nuova e forte, capace di resistere all’odierno lassismo morale e che, proprio andando contro corrente, diventi portatrice nel mondo dello stile, calore e fascino che troviamo nella famiglia di Nazaret. Da sempre luogo e modello, per quanti hanno fede, dell’ideale ‘chiesa domestica’ fondata appunto sui valori nazaretani, ma anche richiamo struggente per gli altri o i cosiddetti lontani, tuttavia affascinati proprio da quel modello antico e sempre nuovo. Ma quali sono i valori di Nazaret che urge riscoprire e trasmettere ai figli, così da preparare la generazione nuova e forte, capace di andare controcorrente? L’essenziale lo sappiamo dai Vangeli, soprattutto da Luca che ci aiuta a sondare le meraviglie che Dio ha operato nella famiglia di Nazaret. Meraviglie che, in scala ridotta, ma, tuttavia notevole, vediamo in tante nostre famiglie dove la fede è profonda e si nutre di preghiera costante. A Nazaret, infatti, era prassi, conforme alla tradizione ebraica, pregare almeno tre volte il giorno, e anche noi ricordiamo la diffusa tradizione nelle famiglie di ieri, che pregavano mattina e sera, né dimenticavano il rosario. E da quella fonte di Grazia la famiglia di Nazaret brilla, come pure molte nostre famiglie, tanto per una vita sobria e nascosta, e nella fedeltà che esprime un profondo amore reciproco, quanto per un tale sacrificio di sé in grado di farsi dono a tutti, con incredibile pazienza nelle avversità. È quanto vediamo negli eventi che la portano da Nazaret a Betlemme, e da qui alla fuga in Egitto, e da ultimo l’incognita del ritorno a Nazaret. Mai però vengono meno la fede, il reciproco amoroso sostegno e la pazienza nelle tribolazioni. Certo, tali valori sono oggi decisamente fuori moda, se non anche derisi. Di qui l’apparente impossibilità di rifarsi oggi a quel modello. Ma la risposta di fede è chiara: quelle meraviglie sono impossibili alle sole forze umane, ma non all’onnipotenza di Dio. Che perciò dobbiamo invocare con la preghiera, e alla quale, sempre per Grazia, dobbiamo fare sempre del nostro meglio per corrispondere. E i frutti non mancheranno: giustamente li chiameremo meraviglie di Dio! Concretamente, nella potenza dello Spirito Santo, le famiglie cristiane in primis sapranno allevare una generazione nuova e altra, rispetto ai modelli correnti, come appunto vediamo nella famiglia di Nazaret, quei figli sapranno domani essere lievito e sale cristiani nella pasta del mondo.

Recita un proverbio. “Dappertutto bene, in famiglia meglio!”. Allora, spendiamo tutte le buone energie in famiglia e per la famiglia, e tutto andrà meglio. Dipingiamo le nostre famiglie con i colori della speranza, e non permettiamo che cadano nel grigio della rassegnazione. “Il mondo è sempre così, siamo noi che lo dipingiamo del colore della nostra infelicità…Il mondo prende i nostri colori” (Cees Nooteboom). Se diamo alla famiglia il colore della speranza cristiana, il mondo acquisterà più luce.

Sono particolarmente intriganti le prime parole di Gesù nel vangelo di Luca. È la prima volta che Gesù parla e le sue parole sono dure, affermano una distanza e un’incomprensione. Sorprende come questo dodicenne risponde alla madre, che avendolo cercato per tre giorni, esprime il suo stupore e disappunto: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Sorprende non solo perché risponde alla domanda con un'altra domanda, ma perché essa suona decisamente imbarazzante se non irriverente: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Gesù sembra dire: Non sapete che la sola famiglia non basta? Che abbiamo sulla terra una casa grande dove tutti sono dei nostri? Non sapete che mi devo occupare delle cose di Dio, perché questo edifica la casa, il mondo, il cuore, la famiglia? Più che un’incomprensione sembra un appello accorato, come quello di Etty Hilleseum dal lager: “Prima pregavo Dio di aiutarmi, ora tocca a me aiutare Lui”. Aiutare Dio ad essere vivo in questo tempo di morte, a splendere in queste tenebre, testimoniarlo, renderlo presente, occupandoci del suo nome, del suo regno, della sua volontà. L’adolescente Gesù sembra non curarsi della preoccupazione dei genitori, anzi si meraviglia che lo abbiano cercato e li tratta da ignoranti: «Non sapevate…?». Le sue scelte sono determinate non dall’obbedienza ai padri, alla tradizione, bensì dall’obbedienza al Padre, e non è certamente a caso che l’ultima espressione del Cristo, sempre nel Vangelo di Luca, richiami questo inizio in chiave di compimento: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Quello che meraviglia è che l’adolescente Gesù dopo tale dichiarazione non rimane nel tempio, ma ritorna nell’ambito della famiglia, subordinato ai genitori come un figlio qualunque: “Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso” (Lc 2,51). Tornò con loro a Nazaret. Ritorna al luogo del primo magistero, più importante ancora di quello del tempio: è dalla porta di casa, vedete, che escono i santi o gli erranti; lì crescono “in età, in sapienza e grazia”. Crescere in grazia è stupirsi sempre della bellezza degli affetti, quelli antichi e quelli nuovi; stupirsi del dono di vedere qualcuno che sorride proprio a te, il dono di salutare insieme un giorno nuovo, di dire insieme “Padre”, dire “amico”, dire “amore”. La necessità, perciò, di fare di ogni famiglia il ‘luogo’ privilegiato di evangelizzazione. Gerusalemme e Nazaret dovrebbero essere i due poli della vita di ogni famiglia cristiana: occuparsi delle cose di Dio e custodire le persone che ci sono affidate. Cosa di Dio è l’uomo! E, infatti, Dio viene, pellegrino, attraverso i volti di chi ci è più vicino, nelle loro domande di aiuto, di affetto, nella loro vecchiaia, nella loro malattia, perfino nei loro difetti e forse anche nel loro peccato.

Gerusalemme: amerai il tuo Dio con tutto il cuore (Dt 6,5).

Nazaret: amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18). Ed è detto tutto.

E va, così, il cammino della famiglia tra questi due poli: le cose più grandi, l’occuparmi d’Altro e poi il quotidiano occuparmi d’altri.

Santità è unire Nazaret a Gerusalemme, fino a che siano lo stesso luogo: del cuore e di Dio.

Il “modello” è qualcosa che un artista ha davanti a sé per farla più o meno uguale. La Santa Famiglia è un tipo di famiglia. Leggendo i giornali o ascoltando la televisione, si scoprono altri ‘tipi’ di famiglia che ci offre la società di oggi. Noi quale tipo di famiglia scegliamo, vogliamo imitare?

Dobbiamo domandarci: Dove vogliamo andare?

È poi così difficile seguire i principi e le norme di una famiglia “normale”, come la Parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa ci propongono? È proprio impraticabile difendere gli autentici valori della famiglia? San Giovanni Paolo II diceva che “L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia”. Ma quale avvenire ci prepariamo, se permettiamo che la famiglia venga sempre più distrutta? “Il bene della persona e della società è strettamente connesso alla buona salute della famiglia” (Benedetto XVI).

Qual è lo stato di salute delle nostre famiglie? Difendiamo la famiglia. Amiamo la famiglia. Preghiamo per la famiglia. Solo nella famiglia possiamo avere la felicità. La famiglia è una cosa così bella che anche Dio ha sentito il bisogno di averne una! “Un uomo gira tutto il mondo in cerca di quello che gli occorre, poi torna a casa e lo trova lì” (Gorge Moore). È vero: spesso noi ci agitiamo alla ricerca della felicità, della verità, della quiete; talora ci inoltriamo in regioni esotiche e remote non solo geograficamente ma anche spiritualmente e non ci accorgiamo che ciò che ansiosamente cercavamo era accanto a noi, nella persona che amiamo, nel luogo del quotidiano della nostra esistenza. Nel mistero dell’Incarnazione il Figlio di Dio ha assunto realmente la condizione umana, condividendone i ritmi di crescita nell’ordinarietà di una vita familiare, in una nascosta e poco rinomata borgata della Galilea: “Fecero ritorno… allo loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era con lui” (Lc 2,51-52). Oltre a farsi obbediente alle dinamiche umane, Gesù è entrato nell’obbedienza alla Legge e alla tradizione religiosa del suo popolo. Maria e Giuseppe fanno tutto secondo la Legge di Mosè, come Luca ricorda con insistenza più volte (Lc 2,22-24.27.39). Anche se comunemente questa piccola comunità è ritenuta ‘straordinaria’ e non confrontabile con le nostre ordinarie esperienze familiari, il racconto evangelico aiuta a farci rivedere tale giudizio, mostrandoci come la vicenda di Giuseppe, Maria e Gesù sia molto più vicina, ‘simpatica’ e addirittura imitabile da una qualsiasi famiglia che voglia davvero far crescere tutti i suoi membri. Il brano dello smarrimento di Gesù al tempio ci narra una vicenda svoltasi, significativamente, nell’anno in cui Gesù giunge alla maturità religiosa (cfr Lc 2, 41-42): a dodici anni, infatti, si diviene ‘bar mitzwa’, figlio del comandamento, e così si è tenuto all’ascolto operoso della Parola di Dio. Tutti noi abbiamo vissuto avvenimenti simbolici che hanno segnato alcune tappe, a volte fondamentali della nostra esistenza: dal non dormire più nella camera dei genitori al ricevere le chiavi di casa, dalla scelta della scuola e del lavoro al primo viaggio in solitudine, dalla ricerca di un’autentica amicizia alla prima preghiera fatta liberamente, senza la necessità di compiacere alcuno. Sono ‘riti’ che si imprimono nella carne, nella memoria profonda di ognuno e ai quali vale la pena talvolta ritornare per ripercorrere il nostro cammino, ritrovando vigore nuovo. Queste esperienze presentano e richiedono sempre dei tratti comuni: curiosità esistenziale, ricerca di novità, coraggio di staccarsi dalle relazioni ordinarie, perseveranza. Ci si potrà dirigere verso qualcosa di proibito o di sconsigliato, di rischioso o di illecito ma anche verso qualcosa di ambito e raccomandato, di consigliato e suggerito. Potrà essere l’ambito affettivo o quello lavorativo, quello religioso o quello avventuroso. Comunque sia, si farà da soli! A modo proprio. E difficilmente si potrà esprimere e raccontare, giustificare, in modo convenzionale: ma questo può essere garanzia di autenticità. Quale genitore, seppur nel dolore del distacco, del taglio del ‘cordone ombelicale’, non ha la sua più grande soddisfazione nel vedere i propri figli camminare autonomamente, alla ricerca della verità e dell’autenticità? Non è forse gioia grande osservare nei figli il desiderio di superare le convenzioni per intraprendere un cammino di ricerca personale, la ‘propria via’? Ogni genitore conosce questo passaggio, sa che deve vigilare su di esso con prudenza. Eppure capita spessissimo che si verifichi un’incapacità a leggere e capire le vicende dei propri figli. Come anche i loro linguaggi e messaggi: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). La famiglia di Nazaret non si è sottratta a questa esperienza. L’angoscia (cfr Lc 2,48) che arriva a investire Maria e Giuseppe cozza violentemente contro la decisa autonomia, non è una scappatella adolescenziale!, rivendicata con intensità da Gesù. E scoppia l’incomprensione. Come dicevo pocanzi. Niente di nuovo sotto il sole! Oggi come allora. Credo che la gioia vera di una famiglia sta proprio nel veder sorgere al proprio interno una personalità adulta, nell’accompagnare la sua crescita con rispetto e discrezione, nel ritrovare la dimensione fondamentale di coppia senza ridursi a quella di genitore, nell’accogliere gli stimoli nuovi immessi dai nuovi linguaggi.

Anche nell’educare, non tutto dipende da noi, perché facciamo parte di un disegno più grande. Ma tanto dipende dalle famiglie, se la vita dei figli e la vita della società sarà più bella.

Non c’è tempo da perdere: in ogni casa, in ogni comunità educante bisogna riattivare o attivare quei valori comuni e l’impegno a testimoniarli se non vogliamo, magari meravigliandoci, veder dilagare la deriva di inciviltà che già trascina tanti giovani.

Purtroppo i giovani hanno il loro Dio: gli parlano, gli confidano i segreti, si rifugiano in lui per sentirsi protetti. È un Dio da cui si sentono ascoltati, compresi, non ... giudicati. Un Dio rassicurante come la coperta di Linus: non è detto che sia il Dio cristiano. È un Dio... personale. Parenti, educatori coetanei, magari loro stessi, sono convinti che si tratti dello stesso Dio che sta in Chiesa sull’altare, ma nei fatti è un Dio creato a proprio uso e consumo. Un Dio che non impegna più di tanto, facilmente intercambiabile, eclettico, un’immagine mutuata un pò dal cristianesimo, un pò dal buddismo, un pò dalla New Age e magari anche un po’ dall’astrologia, dall’occultismo, dai tarocchi. Un Dio fai da te, manipolabile, nient’affatto vincolante.

Un Dio certamente lontano da quello cristiano. “Si è diffusa una fede vaga, una religione vista soprattutto come emozione gratificante, senza fondamenti dottrinali e motivazioni precise” (E. Antonelli).

A ciò ha contribuito anche il disimpegno della famiglia che, dal punto di vista educativo, e quindi anche della formazione religiosa, ha assunto il modello del tour operator: programma, organizza, porta i ragazzi alla scuola, allo sport, alla danza, al catechismo, ma non svolge nessuna funzione diretta. Delega.

La religione resta importante a livello affettivo ma non incide sull’orientamento etico ed esistenziale dei figli. Ad eccezione dei nuclei familiari fortemente “osservanti”, non è trasmesso nulla.

La famiglia non insegna a pregare, non spiega il decalogo, non trasmette il racconto della religione. I genitori dicono al figlio o alla figlia “vai al catechismo”, ma loro non insegnano nulla. Non trasmettono la memoria, la Tradizione religiosa (le pseudo tradizioni religiose sì), sapere, conoscenza. Dicono ai figli “dì le preghiere”, ma non pregano insieme. Dicono “vai a messa”, ma spesso o di solito, loro non ci vanno. Prevale forte l’atteggiamento di demandare alla parrocchia, alle associazioni, al gruppo.

Non c’è formazione religiosa in famiglia e raramente lo fanno ancora un po’ i nonni. C’è un’ignoranza abissale, si vede anche nei quiz televisivi. Appena compaiono domande di contenuto religioso, anche le più elementari, c’è grande sconcerto tra i presentatori e tra i concorrenti. Si impone l’evidenza, con qualche lodevole eccezione, che moltissimi giovani ufficialmente cattolici sono analfabeti religiosamente parlando.

Vogliamo ri-centrare la vita in “Chi” crediamo?

Ripartiamo dalla Parola di Dio: la Bibbia. Essa deve diventare famigliare tra chi crede e per essi; deve incarnarsi nelle esistenze, diventare nutrimento quotidiano, esser desiderata come fonte di luce e di forza; deve essere oggetto centralissimo dell’istruzione religiosa, invadere e alimentare la preghiera. Non diamo più, la conoscenza del cristianesimo, per scontata, mentre, in realtà, la Parola è poco letta, la catechesi non sempre approfondita e i sacramenti poco frequentati. Evitiamo che, al posto della fede si diffonda un sentimento religioso vago e poco impegnativo, che può, facilmente, diventare agnosticismo e ateismo pratico.

Alla Parola uniamo sempre, anche a costo di qualsiasi sacrificio, la celebrazione Eucaristica domenicale. Convinciamoci, come i martiri di Abitene che, “Senza la domenica non possiamo vivere”. E dalla Parola e dall’Eucaristia avremo luce necessaria per affidare la vita a Colui che della vita è l’unico Signore.

 

Condividi su:

Seguici su Facebook