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Il Natale per Alda Merini.

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“È Natale e sui Navigli, come in centro a Milano, non si riesce più a entrare nei negozi: i magri o i lauti stipendi consentono a tutti una ressa ingenerosa alla ricerca di una felicità che non c’è, o che almeno non si compra. Io quest’anno ho spento le candele: tutti mi hanno invitato, ma quella notte non farò nulla di diverso, nulla che io non faccia sempre, proprio come quando ero bambina; al limite si cambiava stanza, si andava dalla camera al tinello per vedere se era arrivato Gesù, e per mangiare il panettone. (…) Ma oggi Milano si affanna a cambiare faccia, ad abbattere le nostre vecchie dimore per apparire moderna, così i rifacimenti delle case hanno abbattuto anche noi, gli anziani. (…) Ma ripenso con nostalgia a quei Natali solenni, quando la mamma faceva enormi presepi, metteva le figurine dei pastori e i laghetti di specchio. Ci facevano trovare il carbone, alle volte, ma eravamo contenti lo stesso: poi, dietro il carbone, c’erano sempre tre caramelle. Però era arrivato Gesù, era questo che importava, vedere che sulla paglia del presepe qualcuno aveva deposto il bambino. E si pregava, si pregava insieme davanti a quella statuina, ignorando che il piede lieve della mamma era andato lì di notte per deporlo. Allora ignoravamo tutto della vita, anche il mistero della nascita, un evento che per noi cadeva dal cielo. La Madonna non appariva sorpresa, neanche San Giuseppe, e noi piccoli eravamo in un regno di favola bello che abbiamo perduto. Ci dimenticavamo dei doni e stavamo piuttosto a guardare quel bambino appena nato domandandoci se aveva freddo, ma la mamma ci diceva che aveva l’amore della Madre.”

(Tratto da “Avvenire”, 2006.)

La riflessione della famosissima poetessa si sviluppa lungo una serie di questioni. Dapprima la materialità e il consumismo con cui è vissuta oggigiorno una ricorrenza pregna di sacralità ed intimità. Viene sottolineata, poi, la differenza tra ieri e oggi, tra il suo ieri e il suo oggi.
La festività era umile, sincera. Niente sfarzo, niente esagerazioni. Semplicità era la parola chiave, assieme a Famiglia. Perché è questo che faceva il Natale: consacrava gli affetti e i legami. Da piccola la scrittrice aveva perso la casa sotto crudeli bombardamenti eppure, senza dimora e sicurezza, in un posto estraneo aveva trovato la “cortesia dei contadini”, il buono delle persone, la condivisione, l’accontentarsi del poco che si ha ed essere comunque grati al cielo.
Seguono poi i ricordi della madre, perché il Natale è anche un po’ “mamma”. Il fulcro del Natale non è forse la nascita? Il simbolo era il bambinello deposto nel presepe ne buio della notte dal piede leggero della madre. E la sorpresa ingenua ed innocente di un bambino. La semplicità regnava sovrana, ed in essa il senso profondo delle cose. Era importante la preghiera, costante e ostinata, devota.
Oggi il Natale diventa secondario, quasi scompare dinanzi all’attesa dei doni, delle luci, del materialismo puro. Per la Merini bambina i doni erano ben altri: odore di mandarini e bollito. Questo era il Natale. Era unicità e senso. Abbiamo perso la religiosità non solo della festività ma, anche, dell’infanzia e della vita stessa. Stiamo crescendo figli senza madre. Quella che manca è una madre di significato.
L’autrice stessa piange una perdita, le sue lacrime scivolano sulle figurine delle sue quattro bambine, amate e perdute. Senza loro, senza figli il Natale non esiste. Il dono più desiderato sono loro: le figlie portate via, il suo “presepe privato”.
Il suo Natale è fatto di madri, figli e senso. Il nostro?

 

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