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Il “grazie” è la chiave della salvezza.

Commento al vangelo

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Il vangelo di oggi sembra porre al centro la questione del ringraziamento. Potremmo terminare qui questo commento, ma sarebbe troppo semplice sminuire il vangelo a un semplice tema! Sarebbe bello questa volta leggere in parallelo la prima lettura e il vangelo, per evidenziare i tratti in comune dei due brani, che pongono il ringraziamento solo alla fine di un percorso di conversione ben delineato.

Abbiamo a che fare, come spesso accade, con dei malati di lebbra, la malattia più temibile del mondo antico; talmente temibile da essere considerati degli esseri viventi già morti, allontanati dalla vita sociale, esclusi da ogni consesso umano, tacciati di impurità, forse anche di maledizione. Il lebbroso è un morto che cammina.

Si capisce allora perché Luca riporti nel Vangelo un particolare non irrilevante, anzi, commovente: il gruppo dei dieci lebbrosi si ferma a distanza da Gesù, e a una sola voce urla verso di lui: Gesù, maestro, abbi pietà di noi! Per urlare devi essere disperato, per pregare devi essere bisognoso di vita, se ti fermi a distanza da Dio vuol dire che ti senti morto dentro, che qualcosa è morto dentro di te.

E poi Gesù, da cui speri la salvezza mediante atti straordinari, miracoli appariscenti e parole altisonanti, che ti dice semplicemente: andate dai sacerdoti! Ma che significa?

Stessa identica scena la leggiamo nella storia di Naaman il Siro; la liturgia oggi riporta solo l’ultima parte del racconto, ma questo comandante dell’esercito , dopo aver scoperto la malattia, sente che c’è un profeta in grado di guarirlo. Parte con molti doni (un po’ come quando si va da qualche medico…) e si aspetta cose straordinarie, mentre Eliseo il profeta gli chiede semplicemente di scendere nell’umile, normalissimo e banalissimo fiume Giordano.

E Naaman se la prende, anzi, si offende, quasi che i fiumi della sua terra non fossero all’altezza di cotanto fiumiciattolo! Ma… non succede anche a noi? Lo straordinario, inquinati dallo show onnipresente, non vediamo l’ora di provarlo, di sentirlo, di essere noi i prossimi miracolati. Ma questi lebbrosi non hanno nulla da perdere e partono, vanno verso ciò che avevano sempre davanti, si fidano o meglio (parolaccia moderna, mi si scuserà) obbediscono. E guariscono! E sono contenti, come solo un lebbroso mondato può esserlo.

E finalmente possono tornare alla loro vita, a fare ciò che di buono e di male si può fare con un corpo sano. Eh si, il corpo sano, l’idolo postmoderno: bisogna essere sani e forti, l’importante è la salute, l’importante è che sia sano, ecc… ma no, questo non basta, serve altro, serve il “grazie”. Non per niente quando quell’unico lebbroso torna da Gesù per ringraziarlo, se ne va con una certezza niente male: “Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato”. Guardiamo i verbi di questo vangelo: essi mentre vanno sono “purificati” (ossia riammessi nella società), il samaritano si vede guarito (è riconciliato con se stesso) e infine Gesù gli dice che la sua fede lo ha “salvato”. Quel samaritano è riconciliato con Dio!

Il “grazie” è la chiave della salvezza. Ogni volta che dici “grazie” dici all’altro, chiunque esso sia: ho avuto bisogno di te, ne avrò ancora, perché sono limitato, perché non riesco a guarire da solo, perché non riesco a riconciliarmi senza qualcuno che mi dica chi sono davvero, perché non mi basta guarire fisicamente per rimandare la morte a data da destinarsi. Ti dico GRAZIE, Signore Gesù, perché non mi hai lasciato morire nella lebbra della mia vita, ma con il battesimo mi hai donato una vita che non finsice, un rimedio a ogni tipo di lebbra, di divisione con gli altri, con me, con Te. Ti dico che: “Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”.

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